Il caso
L'abito non farà il monaco, ma al monastero vestiti da spiaggia non ci si presenta. Così è anche per uno dei luoghi sacri della legge, la Procura: per «esigenze di decoro e di rispetto della persona», divieto d'ingresso in vicolo San Marcellino a canottati e ciabattanti, a uomini in shorts e a donne in braghette e top, in pareo o minimissima mini. Un elenco ufficiale e dettagliato del guardaroba interdetto non è stato volutamente stilato, ma è facile supporre che i suindicati siano tra i «capi di abbigliamento eccessivamente “disinvolti”, che evocano località balneari» ai quali si riferisce il procuratore della Repubblica Alfonso D'Avino in una circolare indirizzata il 4 luglio all'istituto di vigilanza incaricato di fare da filtro e garantire la sicurezza all’ingresso.
Le guardie giurate ora sono chiamate a impedire l’accesso in Procura anche a volgarità e sguaiatezza. Esistesse un «detector» in grado di rilevare in modo inequivocabile anche queste piaghe pandemiche nel panorama quotidiano, sarebbe tutto più semplice. Qui invece siamo nel campo della soggettività, ed è facile immaginare a quante discussioni si andrà incontro: arduo farsi intendere da chi per primo non sia in grado di capire la differenza tra ciò che è consono a un luogo e ciò che non lo è. Mentre l’estate rovente fornisce un'attenuante relativa. Tra casa, auto e ufficio, si rimbalza attraverso climatizzazioni in serie che trascinano in un attimo dall’equatore al polo: sudati si passa da un inverno in miniatura all’altro.
Per conoscenza, la circolare affissa all’ingresso di vicolo San Marcellino 5 e pubblicata nel sito della Procura, è stata inviata anche ai magistrati (togati e onorari), al personale amministrativo, alle forze di polizia giudiziaria e a chi si occupa dei servizi telematici oltre che ai presidente del Tribunale e del consiglio dell'Ordine degli avvocati e della Camera penale. Una questione, sottolinea D’Avino, «di difficile approccio, dovendosi evitare di scadere in facili moralismi». Ma da approcciare comunque, dopo due «segnalazioni ricevute: la prima, relativa a unità di personale amministrativo; la seconda a un praticante avvocato». Quest'ultimo - pare fosse in braghette e sandali Birkenstock - mentre gli veniva impedito d'entrare («opportunamente» ribadisce la circolare), avrebbe questionato in modo provocatorio, evocando l’imposizione di un vero e proprio «dress code». Niente affatto, sostiene il procuratore: «ed è per queste ragioni che, con la presente nota, non vengono impartite disposizioni di dettaglio (ovvero un elenco di capi di abbigliamento ammessi/consigliati/vietati), apparendo sufficiente il richiamo a regole di buon senso, prima che del vivere civile». Ciò vale per gli uffici in generale e, a maggior ragione, «per i luoghi - come la Procura della Repubblica - dove si amministrano affari giudiziari, il che richiede sobrietà e compostezza». Della serie, quando la forma è anche sostanza. Da qui, l’incarico all’istituto di vigilanza di «verificare che le persone che, a qualsiasi titolo, accedano all’Ufficio di Procura, abbiano un abbigliamento decoroso e rispettoso del luogo, per cui detto istituto è fin d’ora autorizzato a inibire l’accesso alle persone che indossino capi di abbigliamento “balneari”». Se poi qualcuno pensa alla Procura come a un’ultima spiaggia, questo è tutto un altro discorso.
Roberto Longoni
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