Tutta Parma
Le aie e le corti di ieri erano autentici porti di mare. Non è vero che fossero posti tranquilli. C’era sempre un’umanità varia che circolava in continuazione. Insomma, una sorta di formicaio che si muoveva in quel mondo piccolo dove tutto faceva comunità, dalle case alle stalle e dove le gioie, le fortune, i dolori, le nascite, i lutti, i matrimoni, i battesimi e le speranze di ognuno, erano sentimenti condivisi da tutti. Un microcosmo nel quale, durante l’anno, si avvicendavano artigiani che si occupavano dei più svariati compiti. Una fatto è certo ed è che quando arrivavano era una festa. Un avvenimento. Specie per le «rezdore» che li attendevano con trepidazione. Ed arrivavano, o in sella del «cavallo di San Francesco», e cioè e piedi, oppure in bici o su qualche altro trabiccolo. Si trattava del sarto, del calzolaio, dell' ombrellaio, dal«caradór» e dell' arrotino («molètta»).
Solitamente arrivavano nelle corti a fine estate e, cioè, quando il lavoro grosso dei campi era finito o stava per finire. Sostavano nella casa colonica , grosso modo, una settimana, facevano tutto quello che c’era da fare e poi se ne andavano con qualche soldo e una borsa di «roba da mangiare»: formaggio, salumi, pollame. Il sarto si occupava solo degli uomini e dei ragazzi, per il fatto che le donne, anche allora, erano autosufficienti e quindi in grado di confezionare, riparare e rammendare abiti, gonne, maglie, cappotti. Alloggiava in una stanza dov’ era montato un letto ed un grosso tavolo sul quale poter lavorare.
Pranzo, cena e veglie venivano trascorse in compagnia della famiglia ospitante che ormai considerava il sarto un parente. Se poi era anziano ed aveva vestito anche un paio di generazioni, si sentiva proprio come a casa propria.
Tempo addietro i sarti non vendevano le stoffe. Era la «rezdora» che le andava ad acquistare nell’unico negozio del paese (una sorta di emporio dove si vendeva dal pane al lucido da scarpe), oppure da quegli ambulanti che periodicamente, a bordo dei loro trabiccoli, facevano tappa nella corte. Erano in prevalenza merciai provenienti dalla Lunigiana i quali vendevano stoffe per uomini e donne, fodere, bottoni, filo e tutti gli altri articoli di merceria. Una volta acquistato il tessuto, la «rezdora», infarcendolo ben bene di naftalina, lo riponeva nel cassetto in attesa dell’arrivo del sarto. L’artigiano arrivava munito di una sporta nella quale erano riposti i ferri del mestiere, dopo di che, iniziava a prendere le misure ai propri clienti. Un vecchio adagio popolare vuole che « quello che non ha fatto il Signore bisogna che lo faccia il sarto». Ed allora, in ossequio a questa massima , il brav’uomo, doveva adattare il più possibile l’abito al corpo del cliente. Siccome nessuno era ed è perfetto ( nonostante la pubblicità d’oggi proponga prodotti che illudono di farci sentire tali), il sarto, doveva fare i conti con certe magrezze scheletriche, con talune pance che sembravano botti, con gobbe, forme di nanismo, spilungoni incurvati, gente che aveva problemi di varicocele e quindi evidenziava « al balón» che doveva essere opportunamente nascosto . Il sarto, giorno e anche notte per poter rispettare i tempi, su quel tavolaccio tagliava, imbastiva, cuciva e poi provava fintanto che quel tessuto non aveva assunto sembianze umane. Poi c’erano i cappotti da rivoltare, i gomiti da rappezzare ed, infine, i colli da cambiare dei tabarri fatti con pelli di coniglio,
volpe o talpa. Al «calsolär» (in città chiamato rigorosamente «cibàch») seguiva le stesse orme del sarto ma, siccome l’armamentario professionale occupava meno spazio di quello del collega, solitamente, si posizionava sotto il portico nei pressi della «porta morta».
Gli bastava un tavolino basso, uno sgabello ed al resto ci pensava lui. Appena montava il suo baracchino, le «rezdore», gli portavano montagne di scarpe rotte e malandate alcune delle quali risuolate in emergenza con cotiche di maiale. Approfittando della sua presenza, al calzolaio, si facevano riparare anche tutti gli altri oggetti che avevano a che fare con il cuoio, come cinture, lacci e altri finimenti per le bestie. Prima che avesse finito il suo soggiorno nella corte, il calzolaio, faceva anche gli zoccoli ai bambini che li indossavano quando andavano nei campi e nella stalla. Altri abituali frequentatori delle corti erano l'arrotino e l'ombrellaio. La maggior parte degli arrotini che giungevano nelle nostre campagne proveniva dal basso veneto, mentre invece gli ombrellai «scendevano» dalla Lunigiana e gli spazzacamini dal Piemonte e dalla bergamasca. Con il loro rituale grido , proprio per attirare le attenzioni delle «rezdore», i due ambulanti si posizionavano nel limitare di un borgo o di una strada o nella corte e, per circa una mezza giornata, operavano nel loro «negozi en plein air». Ben presto dalle case si spargeva la voce che correva da una finestra all’altra, da un balcone all’altro, finchè, nel giro di poco tempo, i due artigiani erano letteralmente circondati sia dalle donne che dai bambini i quali, curiosissimi, non perdevano una sola mossa dei nuovi arrivati. Per quanto concerne gli ombrelli, tutti in telaccia forte color nerofumo, il difetto più diffuso era la mancanza di una stecca o di una controstecca che venivano sostituite con una certa facilità. Cosa ben diversa se il danno avesse interessato il fusto o il manico. In quel caso l’ombrellaio, spalancando le braccia, doveva suo malgrado arrendersi, oppure approntare un lavoro che sarebbe costato troppo al proprio cliente. L’arrotino era un personaggio particolarmente gradito alle massaie per il fatto che dipendeva da lui il buon funzionamento di coltelli e forbici. Il «molètta» , come l’ombrellaio, solitamente era un personaggio simpatico e burlone, dotato di buona favella, battuta sempre pronta saldamente al timone della sua officina ambulante che consisteva in una mola azionata a pedali con la quale affilava le lame. E non mancava mai, sul trabiccolo dell’arrotino, un’ arrugginita latta di conserva ripiena d’acqua che serviva per raffreddare il metallo. C’erano coltelli di diverse fogge: da salame, da pasto, «mezzelune» per tritare le verdure del minestrone, roncolette per i lavori dell’orto, forbici da cucito, forbicioni trinciapollo e la «cortlén'na» personale del «rezdor» che, solo ed unicamente lui, utilizzava per affettare quel salame che aveva provveduto «a far su con i masén». A tutta questa «artiglieria» il «molètta», faceva una lama sottilissima in grado di tagliare in due un capello. Ma, siccome il lavoro era tanto e le richieste non cessavano, il pover’uomo, non potendosi concedere nemmeno un attimo di tregua, da una borsa che teneva appesa al manubrio della bici, estraeva una bottiglia di bianco o rosso per potersi ristorare la gola.
Con il pollice inumidito di saliva l’esperto arrotino, una volta affilata la lama, la accarezzava per tutta la sua lunghezza e, dal tatto, capiva se l’arrotatura era stata perfetta o meno. Se qualcosa non lo convinceva, procedeva ad un altro passaggio sulla mola fintanto che la lama non fosse stata perfetta. Alla sera, terminato il proprio lavoro, sia l’ombrellaio che l’arrotino riordinavano gli attrezzi del mestiere, riassettavano «l’officina mobile» e, dopo avere fatto un incasso più che decoroso, a cavallo della loro bici, migravano verso altri lidi. Un altro prezioso frequentatore della corte era («al caradór») ossia colui che era addetto alla riparazione dei «car da bo» e cioè di quei mezzi indispensabili ai «pajzàn» per il loro lavoro.
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