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EDITORIALE

Abuso d'ufficio: abolirlo o ridefinirlo

Abuso d'ufficio: abolirlo o ridefinirlo

di Domenico Cacopardo

18 Luglio 2023, 13:00

Quando leggerete queste riflessioni sul «decreto giustizia»
potrebbe darsi che il Quirinale abbia dato il suo consenso alla trasmissione al Parlamento e potrebbe darsi di no. La questione è che l’abolizione dei reati di abuso d’ufficio e di traffico di influenze sarebbe contraria agli indirizzi dell’Unione europea che ha ritenuto le due fattispecie penali necessarie per la moralizzazione della vita pubblica. Peraltro, parliamo di ipotesi poco definite e poco definibili, il cui apprezzamento è del tutto scollegato dalla realtà amministrativa. Questi i numeri del ministero della Giustizia: nell’ultimo anno disponibile, 5.418 procedimenti con 9, solo 9 condanne.
L’appetibilità dell’avvio di un procedimento per un magistrato in cerca di facile pubblicità è data anche dalla circostanza che la legge Severino ha collegato con il rinvio a giudizio per un simile reato la cessazione dai pubblici incarichi. E questo spiega gli assurdi numeri di cui sopra.
Oggi, parleremo soltanto di abuso d’ufficio, riservandoci di affrontare il traffico di influenze in un secondo momento.
Per chiarezza, ecco cosa scrive l’art. 323 del codice penale: «Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale  o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni».
Come può comprendere il lettore in esso vengono in rilievo questi elementi sostanziali: 1) «nello svolgimento delle funzioni o del servizio»; 2) «in violazione di specifiche regole di condotta»; 3) «non margini di discrezionalità»; 4) «intenzionalmente procura ecc.».
I 2 punti più rilevanti sono costituiti dalla violazione di specifiche regole di condotta e l’assenza di margini di discrezionalità.
Indirettamente, emerge una interpretazione della discrezionalità del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che la assimila all’arbitrio. Come sostengono molti esperti di diritto amministrativo, la discrezionalità nell’esercizio dell’azione amministrativa non esiste, come a maggior ragione, non esiste l’arbitrio.
Infatti, l’atto amministrativo si compone necessariamente di due parti imprescindibili: la motivazione e il dispositivo.
È vero che la pratica soprattutto delle regioni ha trasformato la motivazione in un guazzabuglio nel quale è difficile orientarsi, ma nella pratica corretta, la motivazione stessa comprende di norma 1) il richiamo alle leggi che regolano la materia; 2) le acquisizioni di quanto espresso in materia dall’Amministrazione; 3) le valutazioni che inducono l’Amministrazione ad adottare il provvedimento.
L’operazione - in uso da parte delle amministrazioni inventate con l’istituzione delle regioni ma anche dei comuni, soprattutto quelli meno strutturati - di scrivere due, quattro o cinque pagine di presunte motivazioni che, in realtà, non inchiodano la stessa amministrazione all’adozione del provvedimento, è purtroppo estremamente diffusa. Una sorta di linguaggio atecnico e anomalo con il quale alcuni interessati pensano di confondere le acque e di evitare le possibili accuse del giudice penale.
La Regione Lombardia si lamenta spesso dagli annullamenti di propri atti da parte dei Tar lombardi: ma queste sentenze sfavorevoli sono adottate in ragione della pessima qualità - frequente - dei provvedimenti esaminati.
Il diritto amministrativo non è il terreno degli azzaccagarbugli o degli incoerenti: è il territorio della logica assoluta, giuridica e, appunto, amministrativa.
Torniamo al provvedimento. Esso può essere legittimo - cioè pienamente corrispondente alle prescrizioni di legge e agli interessi pubblici cui l’amministrazione procedente presiede - o illegittimo, cioè annullabile. Tre le ragioni per annullare: la violazione di legge, l’incompetenza legale di chi procede (come se un ufficiale sanitario emettesse un provvedimento in materia di disciplina del traffico) e l’eccesso di potere che, in qualche misura, configura in questo specifico contesto giuridico ciò che la legge penale chiama abuso d’ufficio. L’eccesso di potere è un vizio del provvedimento o del procedimento che incide proprio sulle ragioni che hanno determinato il dispositivo dell’atto amministrativo. Una incoerenza tra i presupposti (la legge, i vari passi preliminari, le ragioni addotte) e il dispositivo.
Se una soluzione va cercata rispetto all’«abuso dell’abuso di potere» essa può essere trovata nel diritto amministrativo e nella ridefinizione in senso limitativo della discrezionalità: ho scritto che essa non esiste, ma sarebbe opportuno che il legislatore, come ha fatto in passato occupandosi del procedimento amministrativo, renda esplicita e non derogabile questa assenza di discrezionalità. Purtroppo, nella legge sugli appalti e anticorruzione Delrio-Cantone si lascia spazio ai giudizi qualitativi, che sono la porta di ingresso dei processi corruttivi, al contrario dei numeri che sono invalicabili.
Ritengo infatti che un provvedimento amministrativo perfetto, dalla coerenza assoluta non può celare alcun abuso. Anche perché, a parte il conflitto di interessi che non può essere accantonato, proprio per non distruggere il ruolo della pubblica amministrazione e di chi opera in essa, la piena legittimità di un provvedimento dovrebbe essere lo scudo insuperabile dall’azione penale. È la stessa natura dell’atto legittimo che lo lega all’interesse pubblico. E se casualmente qualche interesse privato venisse incidentalmente soddisfatto, questo non dovrebbe colpire la «legittimità» e liceità dell’atto «legittimo».
Un altissimo magistrato - purtroppo prematuramente scomparso - nella relazione di apertura dell’anno giudiziario dichiarò che l’abuso d’ufficio è un reato residuale che viene evocato quando il pm non riesce ad addebitare all’inquisito un reato maggiore. Introducendo così la questione delle modalità di utilizzazione dell’abuso e del traffico di influenze. Descrizioni generiche, nelle quali può entrare e può non entrare tutto.
È in considerazioni del genere che il ministro della Giustizia Carlo Nordio, già magistrato competente e coscienzioso, può trovare la quadra al problema dell’abuso d’ufficio, lavorando sull’atto amministrativo e sulla sua legittimità. È lì che si annida il rischio dell’eccesso di potere, possibile madre di un abuso.
www.cacopardo.it

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