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INTERVISTA

Nicoletta Bazzano: «Barbie, simbolo di ottimismo»

Nicoletta Bazzano: «Barbie, simbolo di ottimismo»

di Filippo Marazzini

19 Luglio 2023, 03:01

Sessantaquattro anni di vita, 58 milioni di esemplari venduti ogni anno in 150 paesi (100 al minuto, 3 al secondo), 200 versioni diverse (è stata, tra le altre cose, rapper e soccorritrice di panda, istruttrice di aerobica e detective, ballerina di can can e, nel 2023, persino presidentessa degli Stati Uniti): ecco i numeri di Barbie, la bambola più famosa di sempre, il feticcio di ogni infanzia. Perché la bionda dalle mani poco prensili e i piedi poco piatti, creatura dall’azienda statunitense Mattel, è stata certamente pettinata, lavata e messa a dormire (ovviamente dopo aver flirtato con Ken e sfilato in ghingheri) almeno una volta in tutte le case del mondo occidentale. E adesso arriva pure al cinema, con l'attesissimo film da domani nelle sale - che porta il suo nome, diretto da una delle più anticonformiste registe americane, Greta Gerwig, con Margot Robbie nella parte della protagonista e Ryan Gosling in quelli di Ken.

Ma come tutti i fenomeni di massa, Barbie presenta un doppio, ambiguo statuto: se da un lato è senza dubbio un mezzo di disciplinamento dei più piccoli, prodotto di una società consumista e patriarcale, dall’altro si rivela una straordinaria lente per studiare i cambiamenti di costume sia del Novecento sia della nostra epoca.

Nicoletta Bazzano, professoressa di Storia Moderna all’Università di Cagliari, intreccia con intelligenza questi due filoni di indagine nel suo bellissimo (e divertentissimo) saggio «La donna perfetta. Storia di Barbie» (Laterza, pag. 163, euro 14).

Professoressa Bazzano, la storia di Barbie inizia nell’estate del 1956: come andarono esattamente le cose?

«Ruth Handler, la creatrice di Barbie, racconterà di una vacanza in Europa con il marito, un produttore di case di bambole, e i figli, Barbara e Kenneth. In Svizzera, durante una passeggiata, la figlia vede nella vetrina di una tabaccheria una bambola “adulta”. Si tratta di Lilli, la mascotte di un quotidiano tedesco: una bambola che ha le stesse fattezze di Marlene Dietrich e che ha un discreto successo presso il pubblico maschile, che legge le avventure su una striscia del quotidiano. La bambina vuole la bambola e, da bambina americana, cresciuta nell’abbondanza, vorrebbe anche tanti vestiti, per cambiarla e acconciarla. La madre acquista la bambola e, qualche anno dopo, immetterà sul mercato statunitense la “gemella” americana: Barbie».

Perché Barbie si chiama così e come avvenne il suo lancio sul mercato statunitense, il 9 marzo 1959? Fu un successo?

«Barbie deve il suo nome a Barbara Handler, la figlia di Ruth, la bambina per la quale - così dirà la madre - è stata creata. In effetti, quando Barbie debutta sul mercato, Barbara non è più una bambina e quello di Ruth è un vero e proprio debutto da imprenditrice. Tuttavia, nel mondo americano dei tardi anni Cinquanta una donna non poteva confessare di voler avviare autonomamente un’impresa: doveva dire che il suo obiettivo primario era quello di dedicarsi alla famiglia. Quanto a Barbie, il suo fu un successo, ma un “succès de scandale”. Tutte le bambine volevano la Barbie, ma le sue forme sinuose scandalizzavano molti dei genitori».

Se invece di trenta centimetri, fosse alta un metro e settantacinque le misure di Barbie sarebbero 99 centimetri di torace, 53 di vita e 83 di fianchi: perché si optò per una fisionomia di questo tipo, biologicamente impossibile?

«La fisicità della Barbie è creata per permetterle di indossare gli abiti del tempo, a vita stretta e gonna a corolla, senza risultare goffa. Ed è per questo che, per i canoni della verosimiglianza, è assolutamente improponibile».

Con quali criteri, nel corso degli anni, vennero confezionati gli abiti della bambola?

«In una prima fase, gli abiti di Barbie venivano disegnati da stilisti che, come molti loro colleghi statunitensi, erano andati a vedere le sfilate parigine per raffinare il loro stile. Venivano poi confezionati con tessuti di qualità e minuterie prodotte in Giappone da sarte professioniste. Infine venduti con un packaging particolarmente raffinato, completo di consigli di stile. Dagli anni Settanta in poi gli abiti sono prodotti in maniera industriale, generalmente in tessuti sintetici, spesso negli angoli più poveri del mondo, in modo da risultare economici».

Barbie ha fin da subito un compagno, Ken (che di cognome - sorpresa - fa Carson): perché i due non convolano mai a nozze?

«Ken non è un compagno. È un accessorio, come i mille altri che Barbie può sfoggiare. Si tratta di un eterno fidanzato, in modo che Barbie continui in un’adolescenza spensierata. L’abito da sposa conclude sempre la collezione che viene proposta per Barbie, ma rimane sempre un abito “da indossare” e non “indossato”».

Midge, l’amica del cuore, la sorella Skipper che si fidanza - guarda caso - con Allan, il migliore amico di Ken e mille altri amici e conoscenti: che cosa possiamo dedurre dai vari personaggi che nel corso del tempo sono stati introdotti nel mondo di Barbie?

«Il mondo di Barbie è un paese dei balocchi. Amici e parenti attorniano Barbie per giocare a tennis, fare le vacanze, preparare il barbecue e così via, in un continuo, infinito divertimento».

Come Barbie ha attraversato il periodo delle lotte per i diritti civili degli afroamericani?

«Barbie, bionda e con gli occhi chiari, per tanto tempo è stata la bambola preferita anche dalle bambine afroamericane. C’è voluto del tempo perché ci fosse una Barbie di pelle scura. Oggi questo problema è ampiamente superato: la Mattel è una multinazionale dal mercato mondiale. E, volendosi affermare globalmente, produce bambole con le più diverse fattezze e con la pelle che va dalla sfumatura più chiara a quella più scura».

Come fu accolta Barbie in Europa e, in particolare, in Italia?

«Da principio, nei primi anni Sessanta, nei confronti della bambola ci furono non pochi problemi. Al di là del prezzo, estremamente alto, lasciava attonito l’aspetto “adulto” della bambola e la sua personalità mondana, con accentuati tratti consumistici. La bambola si impone negli anni Settanta, con una strategia economica di “dumping”, la vendita sottocosto o a prezzo particolarmente scontato dell’articolo in questione, in modo da entrare sul mercato. Una pubblicità accurata sui mezzi di informazione destinati ai bambini, in particolare “Topolino”, riesce a fidelizzare la clientela. Le bambine, dopo aver avuto la Barbie, ne richiedono gli accessori che sono sempre più numerosi».

Oltre allo stereotipo che associa il colore alla sfera femminile, ci sono altri motivi per cui tutto, ma proprio tutto, nel mondo di Barbie è rosa?

«La scelta del rosa è una scelta degli anni Settanta, quando Barbie si deve posizionare nel mondo dei giocattoli facendosi riconoscere immediatamente: si tratta di un’operazione di marketing particolarmente riuscita. Oggi il rosa automaticamente conduce a pensare a Barbie, ma le prime Barbie erano molto più variegate nel loro gusto per il colore».

Da cuoca negli anni Sessanta ad hostess negli Ottanta: che rapporto intrattiene Barbie con il lavoro?

«Negli anni Ottanta Barbie non solo è hostess, ma anche manager, professoressa, medico e così via. A partire dagli anni Ottanta, dopo aver subito i rimproveri delle femministe, Barbie decide di essere il simbolo dell’empowerment femminile. Ha fatto mille mestieri: da vigile del fuoco a guardia a cavallo, da militare a scienziata, da astronauta a candidata alla presidenza degli Stati Uniti d’America, volendo insegnare alle ragazze che ogni strada può essere percorsa con un inveterato ottimismo della volontà».

«Ogni Barbie è più dannosa di un missile americano» è stato detto in Iran: il mondo islamico ha sempre e soltanto condannato la bambola di casa Mattel?

«Il mondo islamico non può amare Barbie: porta abiti succinti ed è protagonista di una vita estremamente libera. Ed è un veicolo di valori prettamente occidentali. Per questo è più dannosa di un missile. Insegna che una donna può fare tutto. Nel mondo islamico la donna continua a dover essere sottomessa e non è possibile ricevere insegnamenti che contraddicano questo. Però anche il mondo islamico ha dovuto soccombere in qualche modo al fascino di Barbie: sul mercato del giocattolo esiste Jasmine, sostanzialmente identica al prototipo occidentale. Si tratta di una bambola vestita in maniera molto tradizionale (e che può vantare un nutrito guardaroba di questo tipo) e che ha come accessorio il tappetino da preghiera».

Secondo lei, il giocattolo Barbie è ormai a tutti gli effetti un retaggio della società patriarcale e occorre dunque lasciarcelo alle spalle o può continuare a parlare alle bambine e ai bambini di oggi?

«Barbie oggi è sostanzialmente innocua; anzi, con i diversi modelli che vengono immessi sul mercato, attenti anche alle differenze fisiche (magra, alta, curvy), può insegnare che una donna, qualsiasi donna, può cimentarsi in ogni settore, malgrado la passione per il rosa. Ciò che è pericoloso in Barbie mi sembra la continua attitudine al consumo, ma forse non è solo lei nella nostra società a dare segnali molto discutibili in questo senso».

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