Nello staff della Primavera
Marcello Gazzola guarda attorno a sé il verde dei campi di Collecchio. In lontananza una squadra si sta allenando mentre la Primavera sulla cui panchina da qualche giorno è il vice del tecnico Cesare Beggi stamattina ha lavorato solo in palestra. «Questo posto mi regala sempre grandi emozioni - dice - ma non certo nuove. A parte i dieci anni di settore giovanile che ci ho passato da ragazzino, mi ero emozionato tantissimo anche nel gennaio del 2018 quando sono tornato da giocatore in serie B. Rivedere questi posti, gli spogliatoi, mi aveva davvero commosso. Non mi aspettavo di emozionarmi così ma mi piace tanto l'idea di essere adesso tornato qui per aiutare i ragazzi che stanno vivendo il mio stesso percorso. Ne sono molto orgoglioso. Provo sensazioni che mi fanno stare bene e spero di poterle trasmettere ai ragazzi».
Rispetto a 20 -25 anni fa questi ragazzi sono diversi dalla vostra generazione?
«Detto che un tempo c'erano meno stranieri, c'è invece una cosa positiva: diversi di questi ragazzi hanno già una mentalità professionistica, sono ben orientati verso la loro meta, mentre ai miei tempi c'erano atmosfere più da vivaio di provincia».
Qui ci sono tanti ragazzi bravi che si allenano e giocano, ma perché poi sono così pochi quelli che arrivano ad alto livello?
«Il concetto è sempre al centro delle nostre analisi: ci sono ragazzi con grande talento, poi bisogna vedere se sono disposti a fare una corsa in più per aiutare un compagno e la squadra e quella si chiamai mentalità, volontà. Io sono il classico esempio. Tanti miei coetanei che erano più forti di me da ragazzi sono arrivati al massimo in Eccellenza. La chiave è la mentalità, la voglia di faticare e il nostro compito più importante è farlo capire ai ragazzi».
Sei anche papà e questo può aiutare a lavorare coi ragazzi.
«Lo spero: ho due figli, Tommy, nato nel 2012 e Vittoria nel 2015. Il maschio ha iniziato a giocare a calcio quando ho smesso io. Abbiamo poi scoperto con mia moglie che lui viveva male l'idea del calcio, perché era il motivo delle mie tante assenze da casa. Soffriva ma in silenzio. Adesso invece è fissato con palloni, maglie, figurine. ''Ma pensa'' gli ho detto un giorno, ''che io ho giocato contro Juve, Milan, Roma e tu non sei mai venuto a vedermi...'' ''Lo so - mi ha detto - ma prima non mi piaceva''. Adesso gioca con i suoi amici nella Valtarese ed è felicissimo. Io però non lo spingerò mai sulle mie tracce. Finché si diverte bene, poi si vedrà».
Quanto incide in cuor tuo il poter vivere di pallone nella tua terra, tra Parma e Borgotaro?
«Ha un valore incalcolabile. Per me non è un lavoro fare quello che faccio. Io ho vissuto il Parma dei Cannavaro e Thuram da giovane leva, poi ho fatto un lungo giro d'Italia da calciatore ma sono voluto tornare qui a chiudere la carriera. Il Parma mi ha insegnato a giocare e mi ha dato da mangiare per cui sarò sempre grato a questo club, con cui poi ho vissuto, da giocatore, emozioni forti come la promozione in B e la prima salvezza in A».
Sei sempre stato, anche da giovane giocatore, una persona di grande equilibrio. Come ti sei forgiato vivendo di pallone?
«Devo ringraziare i miei genitori per questo. Mi hanno insegnato fin da piccolo certi valori, come quello dell'umiltà o quello dei soldi, cosa è importante e cosa lo è meno. Il calcio è un mondo a a parte, da dentro con capisci la realtà, le difficoltà dei comuni mortali. Sei servito e riverito in tutto. Quando poi smetti non ti ha più in nota nessuno a meno che tu non sia Ibra o Totti. Per me lo stacco non è stato un trauma perché a casa avevo imparato a vivere. Anche da calciatore sono sempre stato uno ''normale''».
Ti sei fatto amici veri nel calcio?
«Assolutamente sì. A Sassuolo ho legato con Missiroli e Pomini, che mi hanno fatto da testimoni di nozze, a Parma con tanti, in primis Munari, poi Scozzarella, Ceravolo, gente con cui mi sento ancora adesso, e poi Iacoponi, Lucarelli. Perché quando condividi emozioni così forti come quelle che abbiamo vissuto nel Parma, ti attacchi facilmente ai compagni. E poi io di carattere mi affeziono tanto alle persone che reputo vere e giuste».
A proposito delle emozioni... tecnicamente la salvezza al primo anno di A nel 2019 è stata più difficile della promozione dell'anno prima. O no?
«Certamente sul piano tecnico è stata più un'impresa la salvezza, ma su quello emotivo, da parmigiano, la notte di La Spezia fa venire i brividi ogni volta che ci ripenso».
E quando giocavi chi sono stati gli avversari che hai più maledetto?
«Una volta Boga, lui nel Sassuolo e io nel Parma, mi ha fatto venire un mal di testa da Aulin. Io ho sempre sofferto i brevilinei come lui, o il Papu Gomez, che non capisci da che parte ti vanno via. Poi quando incontri le grandi squadra trovi avversari di altri livelli, te ne rendi conto e sei onorato di averli affrontati. La serie A è molto diversa dalla B, c'è gente con un motore più potente. O ti adatti o non ci puoi giocare».
Tu hai 37 anni e hai detto stop a 35: quando pensi ai tuoi ex compagni Lucarelli che ha smesso a 41 e Di Cesare che quest'anno, a 40, riparte con il Bari, che cosa provi?
«Io ho avuto troppe complicazioni fisiche, un tendine è andato, non ce la facevo più. Dovrei addirittura rioperarmi. Ci ho riflettuto a lungo prima di dire basta, ma i miei figli stavano così bene a Borgotaro, e io ho preferito mettermi avanti per il futuro. Chi sta bene è giusto che giochi a lungo. Io però ho sofferto tanto che una volta smesso ho preso tutte le scarpe da calcio e le ho buttate via. Adesso sono senza...»
Ti vedi in futuro allenatore «importante», di alto livello?
«Ora mi concentro al massimo su quello che sto facendo qui alla Primavera. Voglio dare tutto e imparare tanto. Questa Primavera però il responsabile del settore giovanile Mattia Notari mi ha buttato lì la possibilità di entrare in uno staff tecnico e e mi si è aperto un mondo diverso. Mi piace pensare di poter essere, su questi campi, io partito da qui, un buon modello e un buon aiuto a questi ragazzi».
Ma guardando più lontano?
«In effetti mi piace molto, so come vivere in un team, so stare al mio posto e con quali tempi e modi intervenire. Quindi mi ci vedo nel ruolo di allenatore, ma ho cominciato da pochi giorni e c'è tutto da imparare. La gavetta è fondamentale».
Paolo Grossi
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