INTERVISTA
Presidente Guido Barilla, qualche mese fa è stata annunciata l’apertura di un centro di sviluppo internazionale in Olanda: e subito si sono rincorse tante voci sul futuro della Barilla.
«Mi fa piacere spiegare cosa accadrà e contestualizzare la decisione che abbiamo preso, perché noto che si sta dando molta enfasi alla scelta di aprire il polo di Amsterdam. Enfasi comprensibile, per certi versi: ma è il caso di fare chiarezza. È una normale evoluzione del disegno organizzativo di un’azienda: quando si cresce e i mercati prendono delle forme diverse – per profilo degli investimenti e per come evolvono le abitudini dei consumatori – è indispensabile seguire il cambiamento, non avrebbe senso stare fermi, restare ingessati nel modello di organizzazione. Al contrario: è un dovere presidiare le aree dove un’azienda si sviluppa: lo facciamo da vent’anni negli Stati Uniti e da dieci a Singapore per il mercato asiatico».
Perché la scelta di Amsterdam?
«Oggi abbiamo la necessità di dare una spinta all’evoluzione dei mercati esteri tutti insieme. All’inizio degli anni Novanta la Barilla era un’azienda totalmente italiana, oggi è internazionale e opera in oltre cento Paesi nel mondo, direttamente o attraverso distributori. Alcuni stanno diventando molti rilevanti e, in certi casi, molto complessi, per la diversità di attitudine dei consumatori. Il nuovo polo di Amsterdam, che sarà operativo da gennaio 2024, sarà dedicato allo sviluppo del business internazionale, alla crescita su nuovi mercati e alla ricerca di piattaforme di prodotto innovative».
Quali strategie avete in mente?
«Negli ultimi trent’anni, abbiamo sviluppato i mercati esteri avendo in mente un prodotto e un marchio, cioè la pasta e il marchio Barilla. Ora è il momento di ripensare al futuro del nostro portafoglio di prodotti, impiegando energia e investimenti nei prodotti da forno. È un settore molto più articolato di quello della pasta, ma abbiamo competenze da fare fruttare».
Come contate di riuscirci?
«C’è l’esigenza di investire per rendere il nostro management sempre più internazionale. La scelta di trovare un Paese fuori dall’Italia per articolare questo disegno è stata molto ponderata. È da qualche anno che ci pensiamo: la decisione di procedere è la sintesi di una serie di razionalizzazioni, avendo sempre come obiettivo lo sviluppo strategico dell’impresa. In tutte le aziende ci sono due grandi risorse che bisogna capitalizzare: quella organizzativa – cioè le persone, con le loro competenze – e quella finanziaria. Oggi la Barilla, con questo nuovo assetto organizzativo, grazie alla solidità costruita in questi anni, è in grado di affrontare le sfide del futuro».
Un passaggio importante.
«Sì, estremamente importante. I frutti non si vedranno certo a breve termine: anzi, all’inizio sarà uno sforzo organizzativo non piccolo, ci sarà bisogno di energia, di concentrazione, di grande solidità da parte di tutti. È un passo importante anche per la nostra storia imprenditoriale: perché la generazione mia e dei miei fratelli è, oggettivamente, nella fase finale del ciclo di vita imprenditoriale. E un imprenditore ha l’onore e l’onere di portare l’impresa ad aprire nuove porte, guardare orizzonti più ampi, porsi nuovi traguardi».
Per continuare a crescere.
«Sì, ma non basta. La crescita può essere fine a sé stessa, se è priva di un pensiero strategico. Noi vogliamo una crescita strutturata sulle competenze e sulle capacità dell’impresa. Vogliamo dare all’azienda questa possibilità per i prossimi anni».
Il cuore dell’azienda, però, resterà a Parma? E lo stesso lei e i suoi fratelli?
«Certo. La famiglia rimane certamente a Parma, dove sono le radici storiche. La nostra vita è qui. Il polo di Amsterdam è una scelta, un’evoluzione organizzativa: ma a Parma resteranno la holding e tutto il controllo delle filiere, degli stabilimenti, di tutta la parte operativa di produzione».
E a Parma realizzerete un nuovo centro di ricerca e sviluppo, con un investimento di 16 milioni.
«Sarà un centro molto importante, perché la ricerca e lo sviluppo del Gruppo resteranno qui: sia per motivi di carattere tecnologico, avendo a Parma tutti gli impianti-pilota, sia perché l’ispirazione dei nostri prodotti ha una vocazione di cultura italiana».
Cosa può anticipare del nuovo centro?
«Ci lavoreranno duecento persone, con lo scopo di sviluppare nuovi prodotti. Continuiamo a fare quello che abbiamo sempre fatto, puntando sulla qualità del prodotto e sulla cultura della ricettazione. È questa la forza della Barilla e lo sarà sempre. Per continuare a farlo bene, per pensare all’apertura di nuovi mercati e per sviluppare tecnologie per i prodotti da forno c’è bisogno di forti investimenti. Faccio un esempio: abbiamo da poco acquisito una piccola azienda statunitense, con un grande potenziale proprio per i prodotti da forno: ma tutto ciò che l’azienda produrrà e lancerà sul mercato verrà pensato, sviluppato e gestito dal centro di ricerca di Parma».
La Barilla continuerà a pagare le tasse in Italia?
«Sì, non c’è dubbio. La Barilla è e resterà un’azienda familiare italiana, con un profilo di assoluta stabilità. Ripeto: le sedi in giro per il mondo servono per gestire le aree geografiche dove siamo più presenti. Il centro di Singapore è nato per essere il trampolino di lancio in Asia, continuerà a esserlo e continueremo a investire. Lo stesso in America, dove abbiamo duecento persone. E da gennaio l’Olanda sarà un nuovo polo operativo. Ma il cuore dell’azienda resta a Parma, dove, da un secolo e mezzo, abbiamo le nostre radici».
Torniamo al centro di ricerca e sviluppo di Parma. Quanto è importante l’attrattività del territorio, per farlo diventare un polo di forte appeal a livello internazionale?
«Lo sviluppo della città è strategico per le tutte le imprese del territorio, non solo per la Barilla. Abbiamo bisogno di una vocazione internazionale, la nostra deve diventare una città contemporanea ed europea. Per questo sono necessari i giusti investimenti ed è fondamentale non farsi frenare da atteggiamenti di arretratezza. Penso all’aeroporto, per esempio».
Qual è la sua posizione?
«Dico che fare un passo indietro sarebbe sbagliato e pericoloso. L’aeroporto deve diventare un asset fondamentale per lo sviluppo della città. La crescita passa attraverso investimenti mirati: per fare un salto di qualità serve coraggio, senza perdersi in titubanze. Favorire lo sviluppo dell’aeroporto è una scelta da fare. Serve chiarezza: mi auguro che tutte le forze in campo, comprese le amministrazioni, facciano la loro parte e prendano decisioni che esprimano questa voglia di contemporaneità, perché sennò Parma farà dei passi indietro».
E invece c’è bisogno che sia sempre più attrattiva, e non solo per le imprese.
«Certo. Se si vuole diventare una città contemporanea e attrarre investimenti e competenze occorre mettere in campo una serie di progetti e di investimenti e abbandonare un atteggiamento di conservazione. Questo è un concetto fondamentale, secondo me: perché Parma, oggi, non è una città sufficientemente attrattiva. Un altro esempio: la scuola primaria. La città deve dotarsi di una scuola europea capiente, capace di attrarre famiglie non italiane. Se uno straniero si trasferisce a Parma deve poter trovare una scuola dove mandare i figli».
Quali sono i rischi che si corrono?
«Semplice: se dovessimo restare al palo, sarà sempre più difficile pensare di investire a Parma. La città si deve aprire in modo determinato e definitivo, senza nicchiare. Perché se le persone che vengono a Parma dicono “bella, bella”, ma poi a Parma non vogliono vivere per le aziende diventa un problema serio. Parma è un mercato nel quale noi operiamo: e siamo felici di questo. Ma serve una città all’altezza. Gli investimenti che faremo nel centro di ricerca e sviluppo – per la capacità che la Barilla ha di attrarre persone che vengono da fuori – saranno inevitabilmente proporzionali ai servizi offerti dalla città. Se Parma sarà capace di sviluppare servizi, le persone saranno più inclini a venire. Se la città finirà per chiudersi, per noi potrebbe essere complicato gestire tutti gli investimenti che abbiamo in programma».
Qual è il rapporto con l’Università?
«Eccellente, da sempre. Anche l’Ateneo ha davanti a sé sfide importanti: il lavoro fatto dal rettore Andrei ha dato buoni frutti, sono sicuro che anche Paolo Martelli, che ho incontrato nei giorni scorsi, marcerà nella direzione giusta, farà gli investimenti necessari, stimolerà l’apertura, la crescita. Il ruolo dell’Università è fondamentale per lo sviluppo di Parma».
Come definirebbe, dal suo osservatorio privilegiato, il “made in Italy”?
«Argomento complesso, se ne parla molto e spesso facendo confusione. Il “made in Italy” è una competenza degli italiani nel gestire e nel proporre prodotti e servizi che sono radicati nella cultura del “saper fare” degli italiani. Mi spiego: la nostra capacità di intrattenere le persone e di farle stare bene quando vengono in Italia è “made in Italy”. È “made in Italy” proporre un piatto che abbini anche la nostra competenza nel compilare la ricetta, nella scelta delle materie prime, nella capacità di saperle trasformare. È un complesso di conoscenze e competenze».
Vale per tutti i settori che hanno reso il “made in Italy” celebre nel mondo?
«Sì, dall’arredamento alla moda, dall’alimentare all’automotive: la “ricetta” è un coacervo di tecnologia e tradizione che si mischiano e creano questo modello di competenza: quindi il “made in Italy” non è solo la creatività, non è una concessione divina, non è un miracolo. No. Servono la competenza delle persone, la tecnologia, la scienza applicata a un territorio. Il “made in Italy” è anche esportabile: noi diciamo sempre che la pasta che produciamo in giro per il mondo è la concentrazione della conoscenza e delle competenze di Barilla degli ultimi 100 anni, dalla tecnologia italiana al saper fare nella realizzazione di un prodotto. E se poi sulla linea di produzione c’è un americano, o un asiatico, senza nessuna radice italiana, il prodotto resta un prodotto “made in Italy”, frutto di competenze italiane e nato dalla cultura italiana».
Claudio Rinaldi
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