×
×
☰ MENU

Gli 80 anni si Ottavio Bianchi

L'alchimista di Napoli

L'alchimista di Napoli

di Vanni Buttasi

04 Ottobre 2023, 03:01

Il primo scudetto non si scorda mai. A maggior ragione se lo vinci alla guida del Napoli: era il campionato 1986-’87.

Ottavio Bianchi, 80 anni il prossimo 6 ottobre, è legatissimo alla città partenopea. Prima da calciatore - dal 1966 al 1971 -, poi da allenatore - dal 1985 al 1989, con un ritorno nel 1992-’93 -: in totale undici anni della sua vita.

Ci racconta il suo rapporto con Napoli?

«La città di Napoli da calciatore, da allenatore e da uomo mi ha insegnato a vedere la vita con tutti i suoi particolari contrasti, mi ha aiutato ad ascoltare le persone, a capire la storia e le tradizioni di questa città. Napoli è la vita. Da calciatore, è stato un trauma: avevo debuttato, dopo le giovanili, in prima squadra con il Brescia e ricordo che, in precedenza, Benito Lorenzi, che mi seguiva per l’Inter, mi aveva detto che interessavo ai nerazzurri, che mi sarebbe arrivato un telegramma da Milano. Certo, il telegramma arrivò ma da Napoli. Ricordo l’arrivo in città, durante uno sciopero, e sul taxi che mi portava alla sede mi domandavo cosa ci facevo lì. All’epoca non c’erano i procuratori, eri di proprietà della società, che deteneva il tuo cartellino e decideva lei per te».

Ma, poi, di quella città si è innamorato?

«Quando avvenne il trasferimento ero giovane, arrivavo da Brescia e mi ritrovai a Napoli, in una squadra che “navigava” tra la serie A e la serie B, lontano da casa: fu molto difficile, malgrado tutto, con molta sofferenza, cominciai ad amare quella città. Certo il lavoro e i successi hanno contribuito a farmi innamorare di Napoli, una città unica per l’umanità, per le sue contraddizioni, per la sua incredibile cultura».

Come è riuscito a costruire la squadra che, poi, vinse lo scudetto, la Coppa Italia e successivamente la Coppa Uefa?

«Grazie al lavoro costante. Il Napoli, anche quando ci giocavo, riusciva magari a vincere contro le grandi al San Paolo, ma quando saliva al Nord perdeva anche dalle piccole. Ricordo che non volevo andare sulla panchina del Napoli, lo dicevo ad Allodi: cercai di fargli capire che bisognava eliminare la fama di vittimismo, impostando il lavoro sulla praticità. Lui accettò le mie idee e in quest’esperienza sono stato facilitato anche dal fatto di aver giocato a Napoli: il tentativo, debbo sottolineare, è riuscito. Non sono un presuntuoso ma faccio ciò che ho in testa, non mi faccio imporre nulla dagli altri».

Come è stato allenare Maradona?

«Condivido in pieno una frase del suo storico preparatore atletico Fernando Signorini: “Con Diego faccio il giro del mondo. Con Maradona non faccio nemmeno il giro dell’isolato”. E ho detto tutto».

Perché il titolo “Sopra il vulcano”, il libro che ha scritto con sua figlia Camilla, giornalista?

«L’ha inventato Gianni Mura, il “Maradona dei giornalisti”: sua è la prefazione. Dopo averlo letto, ha coniato questo titolo, in “Sopra il vulcano” c’è tutto».

Che tipo di giocatore era Bianchi?

«Ero abbastanza bravino. A Brescia, a 17 anni, ebbi un grave infortunio che mise in pericolo la mia carriera; un altro lo ebbi a 27 anni. Ho avuto modo di giocare con i più forti calciatori dell’epoca: Sivori, Rivera, Altafini, Zoff, Riva e di affrontare campioni come Pelé e Cruijff. E, a fine carriera, di allenare i più grandi, a cominciare da Maradona».

E come allenatore?

«Come le ho già detto in precedenza, la mia forza era la cultura del lavoro. Ricordo che da ragazzino, in dialetto bresciano, mi dicevano “Lavorare, lavorare, lavorare e tacere”. Forse anche per questo, nelle interviste, apparivo abbastanza sintetico nelle risposte».

Lei ha smesso presto di allenare, nel 2002: rimpiange quella scelta?

«Ho smesso per una serie di circostanze, anche famigliari. La mia conduzione era particolare: rendevo conto solo al proprietario del club. In sostanza, nel mio operato non volevo intransigenze da parte di altri».

Come giudica il calcio italiano oggi?

«Il calcio italiano lo si vede dalla Nazionale, è stato epocale non partecipare alle ultime due edizioni del mondiale. Parliamo di un movimento in profonda crisi ma sembra che, ai vertici, non ci si renda conto di questo. Le faccio una domanda: quanti sono gli italiani che giocano in squadre di prima fascia nel nostro campionato? Pochi. In passato i campioni venivano da noi, ora vanno in Premier, nella Liga, in Bundesliga. Bravo il Napoli a pescare giocatori nei campionati meno conosciuti. I vivai, purtroppo, non vengono presi in considerazione: lo sport è avere fame, aggredire la vita. I nostri ragazzini non hanno motivazioni: in altre nazioni, i giovani esordiscono presto in prima squadra. Il nostro calcio va ripensato».

Vanni Buttasi

© Riproduzione riservata

CRONACA DI PARMA

GUSTO

GOSSIP

ANIMALI