Il «dottor» Ancelotti si racconta
«Dottor» Carlo Ancelotti, complimenti vivissimi. Che effetto le fa?
«Un grandissimo onore».
Cosa ha provato quando ha saputo della laurea honoris causa?
«Un enorme orgoglio. Perché è un riconoscimento molto importante e perché mi verrà conferito dall’Università della città dove sono cresciuto, dove ho passato tanti anni della mia vita. Ringrazio, di cuore, l’Ateneo di Parma».
Ha già pensato alla lectio doctoralis?
«Sì. Ripercorrerò le tappe della mia vita, non solo della carriera sportiva. L’infanzia, il tempo passato al mio paese, fino ai 15 anni. E poi quando ho dovuto cominciare a conciliare il calcio con lo studio, quando sono venuto a Parma, dai Salesiani, per quattro anni. E la mia vita da calciatore e da allenatore. Il titolo è “Il calcio: una scuola di vita”: è proprio così, per me il calcio è stato e continua ad essere una scuola di vita. Ho imparato tantissime cose e le imparo ancora oggi, giorno dopo giorno: perché il calcio cambia continuamente, è sempre successo e sarà sempre così: e un allenatore deve essere sempre al passo con i tempi».
Una domanda difficile, per uno che ha vinto tutto come lei, da giocatore e da allenatore: c’è una vittoria che ha nel cuore?
«La mia carriera è stata contrassegnata soprattutto dalla Coppa dei campioni: è la competizione che sicuramente mi ha dato più soddisfazioni, sia in campo che in panchina, e tutte le finali giocate e vinte restano i ricordi più belli, indimenticabili».
Chi considera un maestro?
«Tanti. Il primo è stato mio padre, ha formato il mio carattere. Poi i maestri della scuola, del collegio. E quelli del calcio, certo: soprattutto Liedholm e Sacchi, quelli con i quali sono stato più a lungo e dai quali ho imparato di più. Liedholm mi ha impressionato molto a livello caratteriale: per la calma, l’ironia, la tranquillità, la simpatia; tecnicamente, Sacchi è stato un innovatore».
Tra i giovani tecnici, c’è qualcuno che le sembra si ispiri al suo modo di intendere il calcio?
«Non saprei. Ci sono tanti giovani allevatori che stanno emergendo, bravi, con idee interessanti. Poi ognuno ha il suo modo personale di intendere il calcio».
Certo che – anche se dirlo a lei, che è il più vincente di tutti, fa sorridere – quello che conta sono i risultati.
«È così, il giudizio sugli allenatori è sempre basato esclusivamente sui risultati. Purtroppo, aggiungo. Una cosa è certa: il lavoro dell’allenatore è molto complesso, molto più di vent’anni fa, quando ho iniziato. Tanto per cominciare, perché i gruppi sono molto più numerosi, si devono gestire rose molto ampie».
C'è una squadra che la diverte di più?
«Sì. Il Real Madrid. (Ride, ndr) È la squadra che mi diverte di più e mi fa soffrire di più».
Qual è il miglior campionato europeo? Non citi solo quello spagnolo.
«Ogni campionato ha le sue caratteristiche: in Italia l’aspetto tattico è molto importante e più evoluto; l’aspetto agonistico è una caratteristica del torneo inglese, quello tecnico del campionato spagnolo. Ma sono tutti interessanti».
Qual è la squadra che teme di più, in Champions?
«Sempre le solite. Potrebbero esserci anche delle sorprese, come l’anno scorso, con l’Inter che è arrivata in finale. Ma penso che a giocarsi la coppa saranno, come sempre, Real Madrid, Barcellona, Manchester City e Bayern».
Diceva di suo padre che le ha forgiato il carattere. La sua calma, che ormai è proverbiale, è merito di suo padre?
«Sì, io ho proprio il suo carattere, anche mio padre era una persona molto calma».
Pensa che, nel suo lavoro, sia un suo punto di forza?
«Sì, perché la calma e l’equilibrio sono molto importanti, in un mondo come quello del calcio in cui l'esaltazione e la depressione sono all'ordine del giorno. Se non sei equilibrato non riesci a gestire bene e serenamente le vittorie e le sconfitte».
Altra sua caratteristica: è stimato dal cento per cento dei calciofili, tifosi avversari compresi. Per non fare nomi, è un po’ il contrario di Mourinho (ma non solo lui), che è sempre molto divisivo.
«Me ne rendo conto. Penso di essere stimato anche perché ho sempre cercato di mantenere equilibrio, senza mai arrabbiarmi o esaltarmi troppo. Probabilmente la gente, i tifosi apprezzano il mio equilibrio».
Da giramondo, c'è una città che le è rimasta nel cuore?
«Tutte quelle in cui ho vissuto e lavorato. Sono state tutte belle esperienze, anche perché ho imparato tante lingue, tante culture diverse. Mi piace molto Madrid, perché gli spagnoli sono molto simili agli italiani. A Madrid si vive benissimo, e soprattutto è il modo di vivere che piace molto a me. Non è una città caotica, come Londra o Parigi. E poi Roma, che ho conosciuta nel 1980: era ed è una città stupenda».
A proposito di apprendere qualcosa dalle culture diverse dei posti dove è stato: non in fatto di cucina, immagino.
«No, no. (Ride, ndr). Quello proprio no».
A tavola vince sempre l’Emilia, giusto?
«Non c’è partita, non c’è discussione. In cucina vince mia sorella, non ci sono dubbi».
Qual è il piatto forte di sua sorella?
«Tanti. I cappelletti in brodo, i tortelli di zucca. È della scuola di mia mamma, di mia nonna. Ha trovato in un cassetto le vecchie ricette di famiglia ed è molto, molto brava nell’interpretarle».
Torniamo al calcio. Adesso pensa, ovviamente, al Real, alla Liga, alla Champions. Ma poi ci sarà la nuova grande sfida della sua carriera, la panchina del Brasile.
«Argomento tabù, parliamo d’altro».
Allora facciamo un salto indietro di qualche decennio. È vero che quando è arrivato in maglia crociata il vero obiettivo del Parma era il centravanti del Reggiolo, Fava?
«Sì sì, all’inizio sono arrivato come accompagnatore».
Come accompagnatore? Davvero?
«Proprio così. Il papà del mio amico e compagno di squadra non aveva piacere che suo figlio venisse a vivere a Parma da solo: e così siamo venuti insieme, al collegio. Poi, dopo un anno, lui è tornato a casa e io sono rimasto».
Per fortuna del Parma e del calcio.
«Be’, sì. Le cose sono andate bene».
Qual è il ricordo più bello legato al Parma? La doppietta alla Triestina nel leggendario spareggio di Vicenza, certo. E poi?
«Ho bellissimi ricordi, molto vivi, di quegli anni. Ho ancora davanti agli occhi il cavalier Bruno Pedraneschi, che è venuto a casa mia per portarmi a Parma, ricordo benissimo i primi allenatori, Visconti e Mora, il debutto in prima squadra, con allenatore Landoni. Poi, certo, lo spareggio, la promozione in B: indimenticabile, Tanti, bellissimi, ricordi. Idem quando sono tornato come allenatore».
La sua prima panchina in serie A (e il secondo posto, nella stagione 1996-’97, il miglior piazzamento nella storia del Parma).
«Già. Ero molto giovane al mio debutto in A, ho avuto la fortuna di allenare un grande Parma: avevo giocatori fortissimi, da Buffon a Cannavaro, da Benarrivo a Sensini, da Chiesa a Crespo».
Sulle prime, Crespo non era amatissimo dal pubblico. E i tifosi si ricordano ancora di lei che diceva: «Più lo fischiano, più lo faccio giocare».
«(Ride, ndr) All’inizio non avevo l’equilibrio che ho adesso».
Tra tanti ricordi belli, però, ha detto più volte (anche nella sua autobiografia) che con Parma il rapporto è sempre stato un po’ contrastato.
«Mah, forse mi riferivo al fatto che poi è arrivato l’esonero. Però, poi, mi hanno esonerato da tutte le parti. Diciamo che è diventata una cosa normale».
Quindi, nessun rancore.
«No, assolutamente. A Parma mi sono trovato molto bene, sono stato trattato molto bene. Ho passato un mare di tempo da voi, da quando avevo quindici anni in poi, a parte la parentesi a Roma. Quando ho smesso di giocare sono tornato, ho vissuto a Felegara. Insomma, con tutti gli anni che ho passato a Parma, non posso che essere molto legato alle vostre zone. È vero, c’è la storica rivalità tra Reggio e Parma, ma, insomma, io dico che abbiamo lo stesso sangue».
L’ultimo salto indietro. 16 marzo 1975, la famosa partita di calcio in Cittadella che ha opposto le troupe di «Novecento» e di «Salò o le 120 giornate di Sodoma»: ha giocato anche lei? In una foto storica c’è un ragazzino che le assomiglia molto, ma restano ancora tanti “negazionisti” che giurano che lei non c’era.
«Eccome se c’ero, me lo ricordo bene. A dire la verità, quella partita mi era passata di mente, sono passati anni. Ma qualche tempo fa, quando mi hanno chiesto se avessi giocato anch’io, me la sono ricordata bene. Ero un ragazzino, non avevo ancora compiuto sedici anni: e non sapevo proprio niente, non avevo mai sentito nominare né Bernardo Bertolucci né Pier Paolo Pasolini».
Com’è andata?
«Molto semplicemente, mi avevano detto che c’era un gruppo di persone che aveva bisogno di qualche ragazzo per fare una partita undici contro undici. E io sono andato e ho giocato, ignorando che quei due capitani fossero due grandi registi. Di Bertolucci, poi, con il tempo, mi sono innamorato: è uno dei registi del cinema italiano che ho apprezzato di più».
Anche, immagino, perché ha raccontato le nostre terre.
«Proprio per quello. In “Novecento” racconta in modo straordinario un periodo indimenticabile della nostra Emilia».
Claudio Rinaldi
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