«Voce podcast live»
«Ascoltare non è leggere, ascoltare non è vedere, ascoltare è una dinamica del tutto particolare. Sentire qualcuno che parla e che racconta una storia ci connette direttamente all’origine, intorno al fuoco. È lì che nascono le storie, tutti i grandi capolavori, l’Iliade, l’Odissea e tutta la grande narrazione. Ma cosa lega il fuoco alla storia? E cosa innesca il suo calore alla lingua e alla fantasia? Avvicinarsi a una fonte di calore ci tiene insieme ed è quel momento in cui l’uomo si accorge che può stare insieme ad altri per darsi coraggio e per riscaldarsi».
Roberto Saviano, ultimo ospite della rassegna «Voce podcast live», ieri sera, ha scelto questa definizione per raccontare che cos’è un podcast, sottolineando la grandezza del racconto narrato, la necessità di illustrare una storia a chi si mette in ascolto, illuminando quel patto virtuoso che si costituisce tra chi narra e chi ascolta.
Introdotto dal vicesindaco Lorenzo Lavagetto, lo scrittore ha iniziato il suo monologo descrivendo «L’incredulità di San Tommaso», celebre quadro di Caravaggio dipinto nel 1600, in cui l’artista, ricostruendo la resurrezione di Cristo, scelse di far partire la luce da Gesù, che nell’immagine prende la mano del santo e la mette nella sua piaga, affinché rinasca attraverso e nonostante il dolore.
«Sta dicendo, tu che stai guardando, non finisci con il tuo dolore e la tua sofferenza, ma rinasci, c’è la possibilità di rinascere ed è qua la potenza del costato. Anche se non ti sembra possibile sopravvivere alla sofferenza, la rinascita c’è e questo è per me l’inizio di tutto: raccontare e conoscere la realtà».
Saviano, autore di tre podcast («Le mani sul mondo», «Chi chiamerò a difendermi» e «Maxi»), che lui chiama «il fuoco» che ha acceso, ha proseguito la sua carrellata con altre immagini, come una foto del 1941, scattata dai tedeschi, che ritrae una contadina che attraversa un fiume per bonificare il percorso dalle mine dei partigiani russi.
«Si chiama draga mine e questa foto indica perfettamente il significato del conoscere, dell’andare a capire», ha puntualizzato Saviano, prima di accostarsi alla storia di Christian Poveda, documentarista assassinato in Salvador, dove aveva girato il documentario «La vida loca», dove racconta delle «maras».
«Christian era uno tosto ed era un uomo che voleva fare esattamente ciò che indicava l’altra foto, cioè il draga mine, chi mette in chiaro, chi dice vi illumino su come stanno le cose, vi fornisco la didascalia per comprendere qualcosa in più – ha detto lo scrittore -. Non poteva farlo se non stando nelle cose».
Poveda, che venne ucciso il 30 agosto 2009, secondo Saviano, con il suo racconto agì un cambiamento, di cui il racconto era parte integrante, insieme alla cura. «Il racconto diventa necessità, è disvelatore e ha un compito ben preciso: evitare che la malattia si diffonda – ha aggiunto l’autore -. Christian è moto per quel documentario, aveva acceso troppa luce. Vale la pena essere morti per un documentario? No. Vale la pena essersi inguaiati per una presa di posizione per seguire un’ideale di verità? No, non ne vale la pena. Perché lo fai? Lo fai perché c’è qualcosa, qualcuno lo chiamerebbe un demone, che aiuta chi lo asseconda e trascina chi prova a fermalo. Quindi c’è il demone del raccontare, del cercare e del pensare che tu possa fare la differenza».
Giovanna Pavesi
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