Visita a sorpresa
In coda in mensa, con Luca e Paolo Barilla: il volto è familiare, anche se, tra gli under 40, per inquadrarlo a dovere qualcuno deve puntare il telecomando dei ricordi sull’icona del docufilm «Vincere in salita» appena visto su Netflix. Agli altri - che quei tempi di gloria contagiosa li vissero in diretta al suo fianco, trepidando con lui porta dopo porta - basta il primo sguardo. Alberto Tomba a Pedrignano: come un ritorno a casa, anche se sono passati anni dall’ultimo incontro. Nessuno sa dire quanti. Normale sia così, quando non è solo questione di memoria. Fuoriclasse italiano dello sci, concentrato di emilianità in grado di scalare l’Olimpo dello sport a furia di discese ardite, battendo gli agguerriti figli delle nevi, Tomba la bomba per la famiglia Barilla è ben più di un testimonial dell’azienda.
A raccontarlo, proprio in «Vincere in salita», è Luca. Era il settembre del 1993, il padre Pietro era appena mancato. «Alberto partì da dov’era (si trovava in Abruzzo, ndr) e venne senza preavvisare nessuno: in silenzio entrò in casa, per rendere omaggio a papà, e salutò chi era vicino. Poi, lo riaccompagnai all’auto e lo vidi ripartire… Rimasi colpito dall’umiltà, dalla semplicità e dalla sincera partecipazione al nostro dolore». Tutti quei chilometri, per cinque minuti che nessuno avrebbe mai chiesto a un campione allora costretto allo slalom anche tra gli impegni quotidiani in agenda. «Avevo 33 anni - prosegue Luca Barilla - e la morte di mio padre fu per me il primo grande lutto: dovevo scoprire in quell’occasione quanto fosse importante la vicinanza del prossimo in certi frangenti. Fu da quel giorno che sentii l'amicizia di Alberto, che sarebbe rimasta salda negli anni».
Anche ora Tomba si presenta a Parma senza preavviso, complice un comune amico che ha combinato l’incontro all’insaputa del padrone di casa. È la pausa pranzo, l’unico orario possibile per improvvisare una sorpresa. L’idea è stata del campione. Con la mamma Maria Grazia ha rivisto il documentario, ha riascoltato le parole di Luca aprire spiragli su una sua parte privata, sempre tenuta al riparo dai riflettori, e ora eccolo qui. In una mano un tassello della sua storia - il pettorale di Kranjska Gora con un esplicito numero 1 - nell’altra un pennarello per la dedica a Luca. Inutile chiedersi quanta neve sia caduta in Alta Badia dal giorno in cui si sciò insieme lassù: basti pensare che a quei tempi le sciancrature erano di là da venire e la sciolina era ancora stesa con il ferro da stiro. «Alberto doveva allenarsi e ci propose di fare qualche discesa insieme» ricorda Luca. Insieme è una parola grossa. «La pista era facilissima, di quelle che riducono le differenze. In teoria, almeno. Nella pratica, lui si mise davanti a me e Guido e dopo un paio di curve affrontate in scioltezza era già lontano. Eppure, noi tre fratelli abbiamo praticato questo sport fin da piccoli, con buoni risultati anche a livello agonistico… Niente, eravamo con un marziano».
E come un marziano (ma più umano di tanti che non hanno raggiunto una frazione della sua fama) il fuoriclasse dello sci «atterra» in mensa con Luca e Paolo, nella sorpresa generale, dalla quale resta purtroppo escluso Guido, assente per questioni di lavoro. Alberto stringe mani, scambia sorrisi lungo il tragitto: anche chi non lo ha mai visto è come se lo conoscesse da sempre. Al tavolo d’angolo appoggia il vassoio con pasta e scaloppine, dopo essersi guardato intorno invano («Un dolcetto?»). Tanti lo ringraziano, come se avesse fatto sventolare solo ieri il tricolore sul gradino più alto del podio. Lottava contro i centesimi di secondo e ora si batte alla grande con lo scorrere degli anni. Asciutto, la chioma ancora scura e fluente, solo qualche pelo bianco di barba gli spunta dal mento. «Un po’ di bicicletta, nuoto, tapis roulant. E poi d’inverno salite con le pelli: due ore di fatica per discese di due minuti» dice a Paolo, a sua volta scialpinista, spiegando i segreti della sua forma. Gambe e braccia restano toniche ed esplosive. Ma sono soprattutto il babbo Franco e la mamma Maria Grazia (a sua volta ben più giovane degli 81 anni dichiarati dalla carta d’identità) salutata in vivavoce dall’ufficio di Luca che lui deve ringraziare, se incarna una smentita vivente dell’anagrafe che lo vorrebbe quasi 57enne. Stupito sarebbe anche l’ortopedico. «Niente dolori» dice, aggiungendo un «no, nemmeno alle ginocchia…». Diete e palestra gli sono sempre state strette. Così come gli allenamenti in squadra, con ritmi e metodi non su misura sua. Scelta vincente, quella di formare un team proprio, sotto la guida di Gustavo Thoeni. «Altre nazionali non l’avrebbero permesso» commenta, e alla mente torna Marc Girardelli, che da austriaco si fece lussemburghese per potersi preparare con il padre Helmut. La strana coppia, Thoeni e Tomba: il primo così lontano dai modi guasconi del bolognese, ma anche - a ben guardare - simile a lui per riservatezza. A volte è solo timidezza che si esprime con linguaggi diversi.
Non era certo per mancanza di rispetto che lui si presentava all’ultimo prima della gara. «Che senso aveva patire il freddo più del dovuto?» dice il campione emiliano, per questo aspetto mai montanaro quanto i colleghi-rivali. A proposito di partenze, un rito al cancelletto? «Darsi il pugno con lo sloveno Jure Kosir». Che vincesse il migliore, poi: Tomba non chiedeva altro... Bello inoltre, e anche questo traspare dal docufilm e viene ribadito dal vivo, lo spirito cavalleresco delle sfide con Girardelli, che in una recente intervista ha dichiarato: «Arrivare dietro ad Alberto era comunque un po’ come vincere». Ai Mondiali del 1996 tanti dovettero consolarsi così: in Sierra Nevada Alberto vinse l’oro nello slalom e nel gigante. Al momento di rientrare a Bologna il delirio era tale che l’aereo messo a disposizione dalla Barilla fu dirottato su Parma, come ricorda chi gli porge la fotografia che lo mostra affacciarsi sorridente dal portellone dopo l’atterraggio. Il grande sciatore si sarebbe ritirato solo due stagioni dopo, da vincente, ancora giovane. «Con questo aereo - racconta - l’anno prima avevo sorvolato proprio le cime spoglie della Sierra Nevada diretto alle Canarie: per mancanza di neve i Mondiali erano stati rimandati e così mi ero concesso una breve vacanza al mare». Con un po’ di amaro in bocca: nel 1995 era in grande forma. Non immaginava che dodici mesi dopo sarebbe stato anche meglio.
Si parla di vette andaluse, e a chiedere uno scatto con lui è una ragazza spagnola, forse nemmeno nata né nel '95 né nel '96. «Ma chi non lo conosce?» lei ribatte raggiante a chi si mostra sorpreso del suo entusiasmo. I corridoi vengono percorsi a passo di selfie. Si formano gruppi con al centro lui, disponibile e divertito. «Silenzio di tomba» scherza Alberto al momento dello scatto. È lui stesso a infilare al polso di alcune ragazze il braccialetto del fan club (ancora attivo nonostante il ritiro dalle gare risalga a 25 anni fa) dopo la sosta caffè. «E un gelatino?» chiede. Che a forza di parlar di neve gli sia venuta voglia di freddo oltre che di dolce? «La prossima volta vediamo di attrezzarci» sorride Luca, lieto di averlo rivisto «intatto, nel corpo, nella mente e nel cuore». La prossima volta: in fondo, da Castel de’ Britti a Pedrignano la strada è poca. Senza discese né salite in mezzo.
Roberto Longoni
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