Intervista
Elio Germano, la scorsa stagione, aveva riempito il Teatro al Parco di Parma con lo spettacolo, di parole e musica, dedicato al Paradiso XXXIII. Martedì tornerà al Parco, sempre accompagnato da Teho Teardo, per dar corpo e suoni a «Il sogno di una cosa» di Pier Paolo Pasolini, specchio dell'Italia dell'immediato dopoguerra, terreno di speranze, aspirazioni alla felicità, individuali e come nazione.
Partiamo da qui nella chiacchierata con Elio Germano, facendo dei giri ampi come il vento, finendo sempre e comunque a inciampare sulle situazioni che ci danno o ci negano la felicità.
«È il romanzo d'esordio di Pasolini, anche se poi uscì nel 1962 - racconta l'attore - È ambientato in Friuli, nel 1948 - '49, parla di tre ragazzi che in questi due anni maturano, crescono nella loro vita, anche drammaticamente».
Lei interpreta tutti e tre questi ragazzi?
«Si interpretano da soli, nel senso che sentiremo le loro voci. Avevo realizzato un laboratorio teatrale in preparazione dello spettacolo in Friuli, nelle zone dove è ambientato il romanzo, con attori non professionisti. Quelle voci vengono riproposte a teatro con un audio cinematografico. In scena, Teho Teardo suona, io tengo il filo del racconto al cui centro c'è il sogno di un'altra vita. La ricerca della felicità è divisa in tre grandi capitoli: i ragazzi cercano questa felicità prima emigrando in Jugoslavia, avendo una visione utopica del Comunismo e restandone delusi. Poi cercano di realizzare il sogno in Italia, un sogno collettivo, fatto di lotte contadine, salvo poi scontrarsi con le forze dell'ordine, con la repressione. Alla fine, spostano il progetto su una felicità individuale: qui entriamo nel terzo capitolo, con la loro maturazione».
Ci aspettiamo un finale amaro, conoscendo Pasolini.
«Certo. Anche chi di loro troverà la felicità, alla fine troverà una felicità borghese di piccole cose, di respiro più “corto” rispetto ai sogni collettivi o agli slanci della giovinezza che coincidevano con il sogno collettivo dell'Italia. Pensiamo a quello che è scritto nella nostra Costituzione, in quegli stessi anni: un monumento altissimo che non è stato mai stato realizzato appieno. Anzi direi che siamo in un momento particolarmente difficile».
Cosa cerca o cosa trova nel teatro?
«Intanto vedo il pubblico come la metà dell'opera, è il pubblico che fa lo spettacolo. Per questo, sicuramente, cerco questioni che ci guardano e ci riguardano. Questioni che parlano ai giorni nostri, al di là di quando sono ambientate. Le grandi questioni si ripetono nella storia dell'uomo».
Al cinema l'abbiamo vista in ruoli spesso tormentati, mai “piacioni”: dal «Giovane favoloso», alla «Tenerezza» film tratto dal romanzo «La tentazione di essere felici», al Ligabue di «Volevo nascondermi» premiato a Berlino, al «Signore delle formiche» girato anche dalle nostre parti... Adesso in «Palazzina Laf» è uno spietato dirigente. Perché li sceglie?
«Il discorso è assai pragmatico. Mentre a teatro sono io che scelgo, al cinema sono, come dire, un “operaio specializzato” chiamato a progetto (ride, ndr) . Ecco, è da chiedersi perché mi chiamano per fare questi ruoli».
Probabilmente perché è bravo e lascia il segno. Quindi nella vita non è così tormentato?
«Non so, bisogna chiedere al mio analista (ride di nuovo, ndr). Però, seriamente, posso dire che tutti i ruoli che ha citato, li ricorderò per la preparazione cui mi sono dedicato, per le cose che ho imparato, per le persone che ho intervistato, più che per la mia performance individuale. Sono state occasioni di arricchimento personale».
A proposito di ruoli scomodi, nel bel film di Paola Cortellesi, Valerio Mastandrea fa una parte scomoda: una di quelle che avrebbe potuto fare Elio Germano?
«Non so, perché non ho visto il film. Credo che un ruolo lo possa sostenere più di un attore, siamo interpreti per definizione; la scelta dipende dalla visione del regista o del produttore».
Come mai non l'ha visto: ne hanno parlato tutti, non è curioso?
«Purtroppo sono un paio di mesi che non riesco ad andare al cinema per la tournée teatrale e un altro progetto che ho in cantiere. Tant'è che non sono neanche riuscito ad andare in giro per la promozione di “Palazzina Laf” e mi è spiaciuto molto».
Alleggeriamo: siamo quasi Natale e - non mi mandi a quel Paese - lei ha iniziato bambinetto, a 8 anni, con la pubblicità di un'azienda di pandori...
«Ecco... Lì ho imparato cosa comporta, a livello traumatico, avere il volto associato a un prodotto e non lo voglio più provare. Tra l'altro, questa cosa l'ho vissuta nell'infanzia e probabilmente è il motivo per cui, ancora oggi, non vedo la televisione o comunque non sopporto quando la gente chiede di farmi una foto. Non so se abbiamo alleggerito...».
Mara Pedrabissi
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