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Intervista

Carlo Lucarelli: «Una storia ambientata a Parma? Ho raccolto tanto materiale»

Lucarelli: «Una storia ambientata a Parma? Ho raccolto tanto materiale»

di Pierluigi Dallapina

29 Dicembre 2023, 03:01

Mille progetti in mente e altrettanti, forse di più, realizzati in televisione, in radio, a teatro. Ma Carlo Lucarelli, nato a Parma il 26 ottobre 1960, resta affezionato alla pagina bianca. «Sono uno scrittore. Quando mi viene un'idea, per prima cosa penso a come scriverla».

Tornato pochi giorni fa nella sua città natale per «Senza mezze misure», spettacolo al Teatro Regio che lo ha visto protagonista per promuovere la Fondazione emiliano romagnola per le vittime dei reati di cui è presidente (a titolo gratuito), Lucarelli confessa di aver pensato di ambientare una storia del commissario De Luca in una Parma del 1943. Il progetto è sfumato, ma non è escluso che la città possa fare da sfondo ad un prossimo romanzo.

Ha mai pensato di ambientare un suo libro a Parma?

«Ci ho provato, ma ci devo ancora arrivare. Volevo ambientare “Peccato mortale”, uno dei romanzi con protagonista il commissario De Luca, a Parma, nel 1943. E sono andato a studiare quel periodo. Ho accumulato un sacco di materiale, ma non ci sono riuscito, perché avevo bisogno di una piccola capitale come Bologna. Però ero partito da Parma, e anche se quella storia non poteva stare dentro Parma, altre potrebbero starci».

Da cosa partirebbe? Quale sarebbe lo spunto?

«Dovrò fare come gli scrittori forestieri e cioè venire a Parma, girare per le vie della città e perdermici, studiarla, leggere tutte le cose che la riguardano e forse dopo potrei riuscire a scrivere qualcosa anch'io».

Qual è il suo legame con la sua città natale?

«Sono nato qui, in clinica Maternità e poi ho vissuto per quasi cinque anni in piazzale Bottego numero 2. A dieci anni però sono andato via, in Romagna, e da allora sono un parmigiano lontano. Parma quindi resta la città in cui vengo a fare delle cose e la città di quando ero bambino. Non ho la capacità di entrare dentro le sue vicende per conoscere i suoi problemi quindi, quando me lo chiedono, dico che è una città meravigliosa».

Come è riuscito a scrivere così tanti romanzi di successo e a condurre programmi tv diventati un cult? Qual è il suo segreto?

«Sono tutte cose importanti, interessanti, come lo spettacolo al Teatro Regio per sostenere la Fondazione emiliano romagnola per le vittime dei reati. Bisogna organizzarsi. Oppure fare come faccio io, sempre all'ultimo minuto».

Quindi non è uno scrittore metodico?

«Io arrivo all'ultimo. Sono come quei bambini che fanno i compiti l'ultimo giorno utile. Poi alla fine i compiti vengono bene».

Per i suoi lavori ha vinto tanti premi. Di cosa è più orgoglioso?

«Sono contento di ciò che ho fatto con “Blu notte”. Incontro persone che erano giovani quando mi hanno guardato e mi confessano: “Ho iniziato a studiare certe cose dopo aver visto Blu notte”. Abbiamo quindi fatto un lavoro di alfabetizzazione rispetto a un pezzo di storia che di solito non viene raccontato».

Con «Blu notte» ha parlato di mafia, 'ndrangheta, stragi. Hai mai avuto paura ad affrontare certi temi?

«No, non avevamo paura. Noi non facevamo un programma di investigazione che può portare a minacce o querele. Il nostro era un programma di storia. La cosa assurda è che le storie che raccontavo avremmo dovuto già conoscerle dai tempi della scuola. Ci occupavamo sempre di storie di cui c'erano già processi o libri. Erano cose vecchie che sembravano nuove perché non le conoscevamo. Poi, parlando di certi temi avremo anche rotto le scatole a qualcuno. Però non sono mai stato minacciato come Saviano che scopre cose e le racconta in prima persona. Bastava mettere in onda il programma mezz'ora più tardi e non ci avrebbe visto nessuno. Era sufficiente».

È mai stato censurato?

«Non siamo andati in onda due volte, per par condicio, sempre con lo stesso programma sulla mafia, perché c'erano le elezioni. Ma noi non parlavamo di qualcuno in particolare».

Teatro, televisione, radio, scrittura: dove si sente più a suo agio?

«Ho iniziato scrivendo romanzi. Poi mi hanno chiesto di sceneggiare un film tratto da un mio libro. Poi la Rai mi ha chiesto se volevo fare un programma. Per la radio, con “Dee Giallo” è stato Linus a chiedermi se mi sarebbe piaciuto raccontare storie che hanno a che fare col mondo della musica. Però se mi viene un'idea l'inizio non è “scena uno, interno giorno”, ma è “capitolo uno, era una notte buia e tempestosa”, cioè è un romanzo. Io mi sento scrittore di romanzi prevalentemente noir. Questa è la mia definizione».

Come è nata la passione per il genere noir?

«Da lettore mi piacevano queste storie e dopo un po' mi è venuta voglia di raccontarle».

Quando ha scritto la sua prima storia?

«Avevo 13 anni, ero a Faenza, a casa di mio nonno. Ora un ragazzino prenderebbe due telefonini e metterebbe il suo film in rete. All'epoca la tua storia o la scrivevi o la disegnavi. Io non ero bravo a disegnare, altrimenti avrei fatto un fumetto. Ero uno di quelli che andava bene in italiano e così ho scelto le parole. La mia prima storia però faceva schifo, naturalmente. Era una roba di epica, narrava di un gruppo di persone che andava sul monte Olimpo».

Quali sono i suoi maestri?

«Il mio maestro principale è stato Giorgio Scerbanenco. Dopo aver avuto per la prima volta l'idea di scrivere una storia ho letto il suo “I ragazzi del massacro” ed ho pensato “ecco, è questa la strada che voglio seguire”. Poi ci sono James Ellroy, Raymond Chandler. Tutti contemporanei. Noi ci vediamo e chiacchieriamo molto spesso. Altri maestri? Marcello Fois, Giampiero Rigosi, Piergiorgio Pulixi, Simona Vinci. Ci vediamo e ci rubiamo le idee».

Uno scrittore di romanzi noir di cosa ha paura?

«Le solite cose che fanno paura a tutti. Concetti astratti come il futuro. Il sovrannaturale invece no. Vivo in una casa che sembra quella dei fantasmi, in cui scricchiola tutto e si spalancano le porte. Per me certi fenomeni sono tutti spiegabili con la termodinamica, la meteorologia. Forse non temo nulla. Ah, sì, mi fanno paura i granchi, ma è una cosa sciocca».

Quali sono i suoi progetti per il futuro?

«Devo finire le storie di “Dee Giallo” che ho cominciato. Con questo podcast mi sto divertendo da matti, perché per me è la stanza dei giochi. E poi ci sono un po' di ipotesi di fiction. Speriamo sempre nel ritorno dell'ispettore Coliandro, noi siamo pronti. Ho anche un paio di idee per altri romanzi. Uno in particolare è quello che dovrei iniziare a scrivere adesso».

A Parma l'abbiamo vista sul palco del Teatro Regio per promuovere la Fondazione emiliano romagnola per le vittime dei reati. Quanto è importante questo progetto?

«La Fondazione lavora come se fosse una chiavetta di accensione per aiutare delle vite a ripartire. Grazie ai fondi che stanziamo per le vittime, la maggior parte delle risorse sono destinate a donne e bambini, cerchiamo di rimettere insieme delle vite che sono andate in pezzi. Quando succede un episodio violento, come un padre che ammazza la moglie davanti ai figli e poi si toglie la vita, va tutto in frantumi e noi siamo lì per aiutare le vittime a ripartire. Il nostro compito è dire alle vittime: “stai calmo, non sei solo. Hai un problema? Ci pensiamo noi”».

In che modo riuscite ad aiutare le vittime?

«Diamo un aiuto concreto. Ad esempio, se c'è una donna maltrattata che ha avuto il coraggio di denunciare e di cambiare vita, ma gli manca la patente, interveniamo noi e la aiutiamo a farla. Una donna, quasi vergognandosene, una volta ci confessò che grazie al nostro sostegno riuscì a comprarsi un nuovo paio di occhiali. Anche in questo moto si ricomincia a vivere».

Come reagisce davanti alle storie di violenza?

«La prima reazione è di sorpresa, perché mi chiedo “ma davvero succedono certe cose?”. Poi subentra la rabbia e infine si fa largo la razionalità, perché queste persone vanno aiutate. Ma comunque la realtà supera la finzione. In peggio».

Pierluigi Dallapina

© Riproduzione riservata

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