Intervista
Il capitano, quello che sul braccio ha tatuato Rocky Balboa, uno che come lui non molla mai, che se mai va al tappeto si rialza sempre, è il bimbo che, dagli spalti, dava il «cinque» dal vetro al papà, quando gli scarpini li usava lui, bandiera dell’AlbinoLeffe. Ora che i ruoli si sono invertiti, re Enrico, l’«indispensabile», 24 anni spesi bene, figlio d’arte, sorridente, simpatico, con il cappellino dei San Diego Padres e l’educazione di chi ha alle spalle una gran bella famiglia e un’altrettanto bella scuola (quella dell’Atalanta, vivaio di campioni in campo e fuori), ripensa con dolcezza a quando voleva giocare a basket, magari per emulare i fenomeni Nba. Ma il destino ha i suoi piani e a volte non ce la fai a tenerlo chiuso in un palazzetto, lo devi liberare, lasciare correre in campo aperto: come Enrico Delprato (sì, tutto attaccato), un calciatore coi baffi (in tutti i sensi), formidabile baluardo della difesa, ma soprattutto capitano coraggioso di un Parma che rispetta tutti ma non ha paura di nessuno. Un giocatore che così ne vorresti mille e a cui se chiedi i buoni propositi per il 2024 gliene viene in mente uno solo: «Andare in Serie A».
Innanzitutto risolviamo un grande enigma: come si scrive Delprato? Staccato o attaccato?
«Prima eravamo Del Prato, ma 7 o 8 anni fa mio papà, andando in Comune a Grassobbio, dove abitiamo, nel bergamasco, ha scoperto che il cognome era attaccato: così ha dovuto cambiare tutti i documenti e anche io ovviamente mi sono adeguato. Ma so che ancora molti lo scrivono staccato».
Hai citato tuo papà, so che è stato un calciatore: in un certo senso sei figlio d’arte. Raccontami un un po’ il rapporto con lui, da questo punto di vista.
«I ricordi più belli che ho dell’infanzia sono legati a quando lo andavo a vedere giocare a calcio. Mi ricordo che andavo con mia mamma, che mi accompagnava, mano nella mano, allo stadio di Bergamo: all’epoca c’erano le vetrate, io arrivavo e gli davo il cinque dal vetro mentre stava facendo riscaldamento. Lui ha giocato per un sacco di tempo nell’AlbinoLeffe, in B e in C, l’ultimo anno nel 2008: avevo 9 anni quindi mi ricordo un bel po’ di cose. Diciamo che è stato lui che mi ha trasmesso la passione per il calcio. Anche se devo dire che non mi ha mai spinto, così come anche mia mamma, a giocare a calcio: mi hanno sempre lasciato libero di scegliere».
Non ti hanno fatto pressioni, diciamo.
«No, assolutamente mai. Anzi, devo ringraziare sia mio papà che soprattutto mia mamma per avermi fatto sempre capire che la cosa più importante era la scuola. Non ho mai fatto scuole private, sempre pubbliche: ho preso il diploma in ragioneria amministrazione finanza e marketing. Mia madre mi ha suggerito di frequentare una scuola che se mi fosse andata male con il pallone mi avrebbe comunque permesso sia di lavorare che di fare l’università e di dare importanza sia al calcio che alla scuola, con l’obiettivo principale però di diplomarmi».
Quindi alla fine sei riuscito a diplomarti mentre eri nelle giovanili dell’Atalanta...
«Sì, non è stato facile... soprattutto gli ultimi anni mi ricordo che mi alzavo alle sei-sei e mezza perché c’era il pullman che mi portava a Bergamo, poi andavo a scuola dalle 8 fino all’una, all’una e mezzo tornavo a casa, mangiavo una cosa veloce e alle due e un quarto arrivava il pulmino che mi portava al campo. Finivi intorno alle 6 di pomeriggio e poi dopo la sera dovevi studiare... Però davvero, non mi è pesato: se ci ripenso adesso sì, non posso dire che non fosse faticoso, ma all’epoca lo dovevi fare e lo facevi e basta, non c’era molto da starci a pensare. Ma è stato bello, dai. Devo ringraziare i miei genitori anche per l’educazione che mi hanno dato, che per me è la cosa principale e che negli ultimi tempi devo dire, se mi guardo intorno, sta mancando. E per avermi fatto passare un’adolescenza tranquilla, serena. Senza vizi, ma allo stesso tempo senza farmi mancare niente».
Ma adesso tuo babbo com’è con te? E’ tifoso o un po’ critico, visto che ha fatto il calciatore anche lui?
«Quando ero più piccolo e lui mi veniva a vedere gli chiedevo sempre come avevo giocato. Poi crescendo capisci se hai giocato bene o meno, lo sai già se hai fatto una bella partita o meno. Adesso più che di me parliamo della squadra, dell’ambiente, di come vanno le cose. Però adesso allena quindi non tutte le settimane riesce a vedermi: ma quando può, sia lui che mamma che i miei nonni, che sono molto tifosi, mi seguono. E una volta finita la partita con mio papà ci sentiamo sempre, parliamo di come è andata, ci confrontiamo. Ma lui devo dire è sempre molto obiettivo, non è troppo critico né mi regala dei complimenti. Se faccio una bella azione, o segno un gol, me lo dice ma senza esagerare così se faccio una partita sotto tono non me lo fa mai pesare. E’ sempre equilibrato nei suoi giudizi: e anche questa è stata una bella fortuna per me».
Ho letto una volta in una pagella della Gazzetta di Parma una definizione su di te che mi è piaciuta molto: «un lottatore indispensabile». Ti riconosci in questa definizione?
«Non me la ricordavo...colgo l’occasione per ringraziare chi l'ha scritta. La mia filosofia nell’affrontare le partite è sempre quella di dare il massimo dal primo minuto al novantesimo, di non mollare mai. Poi ci stanno gli errori, come in tutti gli ambiti e in tutti i lavori, però non deve mai mancare la volontà, la determinazione e la grinta di cercare di raggiungere un obiettivo».
Che poi è un po’ quello che fa tutta la squadra quest’anno...o no? Tu sei qui da tre anni, ha visto un cambiamento?
«Sì, sicuramente: soprattutto rispetto al primo anno l’atteggiamento è cambiato, abbiamo recuperato o vinto un sacco di partite negli ultimi dieci minuti. E’ un po’ la filosofia che insieme al mister e a tutto lo staff stiamo cercando di portare avanti».
Più carattere insomma...
«Sì, sì. Poi sappiamo tutti che qualitativamente abbiamo dei giocatori importanti: il passo in più forse è quello di dimostrarlo in campo anche da un punto di vista caratteriale e mentale. Se riesci a fare questo passettino qua ti togli delle grandi soddisfazioni».
Cosa significa essere capitano di questa squadra? Tra l’altro sei un capitano giovane...
«Sì, ho fatto a novembre 24 anni: è il mio primo anno da capitano. Cerco sempre di comportarmi bene e di fare il bene dei miei compagni, di fare un po’ da raccordo tra loro. E’ il primo anno e quindi ho tante cose da imparare, perché nessuno nasce capitano: ci sono tante cose in cui posso migliorare. È sicuramente è una grande soddisfazione essere capitano di una piazza come quella di Parma che dopo Milan, Inter e Juve a livello europeo è la squadra che ha vinto più di tutti. Ma non solo per questo: anche per l’affetto che i tifosi hanno verso la squadra e per la città, che ormai ho a cuore: una città tranquilla, a misura d’uomo, dove trovi tutto. Mi piace stare qui. È una grande soddisfazione e anche una bella responsabilità. Una responsabilità che però a 24 anni non ho paura di prendermi: cerco di fare il massimo per il bene della squadra, prima di tutto. E spero di restare capitano a lungo».
Quali sono secondo te le caratteristiche che deve avere un leader, in campo e fuori?
«Ma guarda, io di mio non sono una persona che parla tantissimo, a cui piace apparire: in campo però bisogna parlare, comunicare, interagire molto con l’arbitro, con gli avversari e quindi una parte importante del lavoro lo devi fare durante la partita. E poi anche fuori, soprattutto: devi sempre essere molto attento ai problemi che ci possono essere tra i compagni, tra il compagno e una persona della società...devi cercare un po’ di risolverli. E poi devi essere carismatico: io non penso di essere una persona carismatica a livello comunicativo, non faccio grandi discorsi. Cerco di parlare con i fatti e quando serve: quando c’è da dire quella cosa in più al compagno, o tenerlo su perché magari è un po’ giù, un po’ triste, ad esempio. Così come quando qualche compagno magari alza un po’ troppo la cresta e bisogna rimetterlo coi piedi per terra. Però devo dire che con i ragazzi non ci sono grossi problemi di questo i tipo: è un bell’ambiente, quest’anno ancora di più. Poi certamente i risultati aiutano, quando vinci anche i problemi si riescono a nascondere».
Ma è vero che sei il primo ad arrivare al campo e l’ultimo ad andare via?
«L’ultimo ad andare via sì, il primo ad arrivare però onestamente no...: ci sono dei miei compagni che si svegliano molto presto alla mattina e vengono qui prima di me. Io preferisco dormire invece mezz’oretta in più: arrivo verso le 8,45-9, ma c’è chi è qua già dalle 8,30. Però l’ultimo ad andare via sì, è vero: se devo fare delle terapie le faccio o se c’è da parlare con il team manager o col direttore mi fermo... quindi sì».
Terza stagione al Parma per te, abbiamo detto: perché questa dovrebbe finire diversamente dalle altre due come tutti speriamo?
«Per l’impegno innanzitutto che ci stiamo mettendo insieme al mister e allo staff, perché davvero ogni giorno siamo qua con entusiasmo, anche dopo partite che magari non vanno tanto bene. Ma cerchiamo sempre di dare il massimo, di migliorare, di lavorare. Lo dobbiamo ai tifosi: vogliamo dare una grande gioia anche a loro. Dopo avere passato il momento della retrocessione, che io non ho vissuto direttamente, un primo anno in B non bello, difficile per tutti, con una squadra tutta da costruire che ha faticato a calarsi nella realtà di un campionato complicato dove servono malizia e aggressività, dall’anno scorso, con l’arrivo di mister Pecchia, abbiamo iniziato un nuovo percorso che ci ha portato a un passo dalla finale dei play off. Quest’anno abbiamo inserito pochi ma buoni elementi che ci danno quel qualcosa in più per arrivare all’obiettivo di tutti. E’ un progetto partito tre anni fa che sarebbe bello finisse così: con la promozione in serie A».
Un altro aggettivo che è stato usato per te è insuperabile: perché effettivamente non è mai facile superarti. Ma chi è tra gli attaccanti che ti ha dato più noia? C’è qualche avversario con cui hai fatto più fatica?
Non ce ne è uno in particolare, ma non perché non ce ne sono: perché ce ne sono tanti in realtà. Sono tanti quelli forti, che ti mettono in difficoltà: ed è forse proprio per quello che la B è difficile, perché tutte le squadre hanno buoni giocatori. Ogni squadra ha il suo modo di giocare e le sue caratteristiche e sa metterle in risalto. E così i giocatori: ci sono attaccanti giovani che magari sono alla prima o seconda esperienza in serie B e che non conosci ma che sono bravi e che magari escono dalla Primavera del Milan o dell’Inter o della Juve o che arrivano dalla C e che quindi non hai mai affrontato, ma sono forti. Devi stare attento a ogni partita: soprattutto nel mio ruolo affronto tanti attaccanti che ti possono dare fastidio. Perché nessuno è insuperabile. Dai il massimo, cerchio di non sbagliare, ma tutte le squadre possono metterti in difficoltà».
Hai fatto il laterale, il centrale, hai giocato anche a centrocampo: hai un ruolo preferito, una posizione in campo dove ti trovi più a tuo agio?
«A centrocampo ho giocato poco, qualche spezzone con Maresca: poi diciamo che per il resto che ho sempre alternato il ruolo di centrale con quello di terzino. Mi trovo bene in entrambe le posizioni, entrambi hanno lati positivi: quando giochi da difensore centrale puoi impostare di più l’azione, sei nel vivo del gioco, il portiere la passa a te, imposti da dietro, hai insomma più palloni da giocare. Giocando invece da terzino hai la possibilità di fraseggiare con il tuo esterno, di spingerti in avanti, fare il cross, cercare di accompagnare sempre l’azione. Poi ci sono anche i lati meno positivi: quando ad esempio da centrale trovi l’attaccante forte che continua a fare scatti in profondità e devi stargli dietro non è facile, così come allo stesso tempo da terzino se becchi certi esterni che vanno veloci - e nel nostro campionato ce ne sono una marea - e non sai mai se vanno a destra o a sinistra c’è da stare attenti. Comunque non c’è un ruolo che preferisco: mi adatto a quello che c’è da fare».
Hai mai pensato cosa avresti fatto se non avessi fatto il calciatore?
«A questo proposito (sorride, ndr) c’è una bella chicca che ti devo raccontare. A me piaceva molto il basket e mi piace tuttora: quando giocavo alla scuola calcio nel mio paese, a Grassobbio, a scuola facevo altri sport, tra cui il basket. Con mio papà andavamo spesso a vedere anche l’Armani. Allora un giorno sono arrivato a casa e ho detto ai miei genitori: “Voglio provare un altro sport, voglio giocare a basket. Non voglio lasciare il calcio, ma mi piace di più il basket”. Quello che non sapevo è che il giorno prima un signore che si chiama Bonifacio e che a Bergamo viene chiamato il “maestro”, perché allenava l’attività di base dell’Atalanta ma allo stesso tempo faceva il maestro a scuola, mi aveva visto giocare a calcio e voleva farmi fare un provino per l’Atalanta. I miei genitori non me l’avevano ancora detto per non mettermi troppa pressione, ma a quel punto me l’hanno dovuto dire...: il provino era il giorno dopo, ho deciso di farlo e di vedere come andava. Il giorno successivo il “maestro” ha chiamato mio padre e gli ha detto: “Guarda che il ragazzo lo prendiamo”. Così sono andato all’Atalanta: e il basket è rimasto solo un’idea».
Tra l’altro come è questa storia dell’Atalanta fucina di campioni? Com’è che funziona così bene quel settore giovanile?
«Il segreto non lo so nemmeno io, ma devo dire che ci sono state delle figure, come Mino Favini, che è stato il responsabile del settore giovanile per molto tempo, così come il maestro Bonifacio di cui ti parlavo prima, che hanno fatto davvero la differenza. Erano persone che nel ragazzo non cercavano solo il talento, ma gli insegnavano anche ad aiutare il compagno, a non fare casino o a non mettere su il muso se il mister non li faceva giocare. Favini portava avanti i ragazzi anno per anno, decideva su chi puntare mentre il “maestro” era quello che girava tutti i paesi del Bergamasco per scovare tra i bambini quelli più bravi. Aveva tanto occhio, solo nella mia annata sono usciti davvero tanti ragazzi: bimbi presi a 7-8 anni in cui non so come riuscisse a vedere delle qualità e che poi sono diventati calciatori professionisti. Erano dei grandi formatori, molto attenti ai ragazzi anche fuori dal campo: mi ricordo ad esempio che dovevo sempre portare la pagella al mister; se non andavi bene a scuola c’erano dei piccoli castighi, magari al posto tuo giocava un altro. E poi anche dal punto di vista calcistico sono bravi: stanno molto attenti al particolare, alla tecnica che adesso secondo me viene un po’ trascurata: anche se i tempi cambiano e stiamo arrivando a un calcio più fisico e quindi, giustamente, va curato anche questo aspetto».
Abbiamo parlato tanto di calcio. Ma fuori dal calcio cosa ti piace fare?
«Mi piace molto seguire gli altri sport: come ti dicevo mi piace molto il basket, vado a seguire spesso l’Olimpia a Milano, mi piace il football americano, il baseball...gli sport americani mi piacciono tantissimo. Ma mi piace anche il tennis. Poi oh, se dico così la mia ragazza mi uccide (ride, ndr): sembra che guardo solo sport... In realtà passiamo tanto tempo insieme: andiamo a cena, al cinema... E mi spiace se magari troviamo la sala vuota, perché è bello condividere: il cinema è una cosa che mi rilassa molto, sono molto appassionato di film, di attori»...
Chi sono quelli che preferisci?
«Beh io ho un tatuaggio di Rocky Balboa... quindi sicuramente Stallone soprattutto per Rocky e Rambo, ma anche Denzel Washington, Morgan Freeman, Will Smith, Robert De Niro, Al Pacino, Brad Pitt, Leonardo DiCaprio... Mi piace la cultura americana, sia nello sport che nel cinema: tra l’altro non ero mai stato in America e l’anno scorso ci sono andato due volte, a New York, prima con la mia ragazza e poi con lei e i miei genitori, che non c’erano mai stati ed era un po’ il loro sogno. Dopo New York, siamo stati a Philadelphia e Washington. Abbiamo colto l’occasione per andare a a vedere il football americano una volta e due volte il baseball».
E ti piace come vivono loro lo sport?
«Sì’ molto, mi piace la loro mentalità: sono molto sportivi. Con il fatto che non ci sono promozioni né retrocessioni è un ambiente un po’ più tranquillo: applaudono anche l’avversario, o comunque il bel gesto dell’avversario. Poi per carità, a me piace molto la rivalità, il derby, la stracittadina però almeno per quanto riguarda gli spalti non sarebbe male importare un po’ di mentalità americana. Cioè, non è bello che qui una famiglia che va a vedere la partita allo stadio debba stare attenta dove passa, a non esultare perché magari i tifosi avversari ti possono rompere le scatole... Questo in America non esiste: spesso capita che vedi la partita accanto al tifoso della squadra avversaria e ci scambi pure due chiacchiere o ci mangi insieme».
Buoni propositi per il 2024?
«Andare in serie A, il nostro obiettivo è questo: vincere il campionato. Ogni giorno noi arriviamo qui al campo per portare a casa questo obiettivo: lavoriamo sodo per toglierci questa soddisfazione. Poi nel calcio ci sta tutto: ma noi daremo il massimo».
Ma questi baffi? Che storia hanno?
«E’ tantissimo che ce li ho. Anni fa avevo visto una foto dei miei nonni da giovani coi baffi e allora ho detto “dai provo a farmeli anch’io adesso”. Non so onestamente se dopo tutto questo tempo sono abituato a vedermi senza baffi: ma però non so, magari li taglierò. A volte mi dico: “Anche senza baffi non stavi male”. Devo un po’ decidere. La mia morosa? No, a lei piacciono, è contenta: quello è un punto a mio favore, dai».
Dove ti vedi tra vent’anni? Ci hai mai pensato?
«Non lo so...: spero di fare il calciatore il più possibile. Mio papà ha giocato fino a 40 anni e spero di arrivarci pure io. Poi dopo non so cosa potrò fare: il calcio mi piace ma ho anche altri interessi. Mi piacerebbe fare un lavoro magari anche all’interno del mondo del calcio che mi permettesse di viaggiare. Il mondo è talmente grande e ci sono così tante cose da vedere che è uno spreco stare soltanto in Italia: però diciamo che ho tempo per pensarci. Lo capirò con il tempo».
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