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Parma di una volta

I maghi del fuoco che trasformavano la legna in carbonella

I maghi del fuoco che trasformavano la legna in carbonella

di Lorenzo Sartorio

22 Gennaio 2024, 03:01

Le più ricche miniere di carbone dalle nostre parti erano nei... boschi. Infatti, proprio nelle foreste appenniniche, squadre di «maghi del fuoco» ricavavano, dalla legna, quel carbone che poi veniva portato nelle varie città per riscaldare le case. E a presiedere i boschi per estrarre il carbone dalle piante erano i carbonai mentre i «carbonini» operavano in città in grossi magazzini stipati di legna e carbone. Chi si diletta a fare escursioni in montagna, molte volte, avrà notato in certe zone del bosco ampi spazi circolari dal «pavimento» di terra annerita. Non sono certo «crop circles» alieni, ma solo tracce delle antiche carbonaie per la produzione di carbone vegetale. Un mestiere, quello del carbonaio, ormai pressochè sparito come quello dei mulattieri e dei «carbonini». I carbonai, dalle nostre parti , erano prevalentemente originari della Val d'Enza ma in modo particolare del paese di Sassalbo, in Lunigiana, che appare al turista quasi nascosto dal monte dopo avere superato il passo del Cerreto in direzione di Fivizzano. Essi si distribuivano nei boschi del reggiano, garfagnino e parmense in gruppi consistenti utilizzando per il trasporto del carbone muli ed asini, i «Tir» della montagna di ieri. In settembre giungevano sul posto e sceglievano l’appezzamento di terreno da utilizzare ricoperto da cerri, faggi e carpini, contrattavano il prezzo con il proprietario del terreno e, solo dopo avere eseguito questa non secondaria operazione, iniziavano il lavoro vero e proprio all’interno di quei boschi che, per i valligiani, hanno sempre rivestito una straordinaria sacralità per il fatto che, anche nei tempi antichi, il bosco era ritenuto sacro in quanto custode dei segreti della vita.

La cultura celtica ne è un esempio lampante. Il carbone migliore, senza alcun dubbio, era quello di cerro, quindi gli appezzamenti più costosi e più ambiti erano appunto i boschi di cerro. La prima operazione era quindi quella di tagliare gli alberi e dividerli in pezzi di circa un metro di lunghezza. I carbonai sceglievano una parte del terreno pianeggiante e, lì, fissavano la loro carbonaia conficcando sul terreno pali lunghi anche due metri, posti obliquamente. Il «monumento ligneo» che si veniva a creare era più simile ad una tenda indiana che non ad una carbonaia. Sulla sommità veniva lasciato un foro temporaneo che arrivava fino al terreno, dopo di che, una volta compiuta l’operazione di riempimento, si accendeva la carbonaia. Il tutto veniva accuratamente ricoperto con la cosiddetta «còddga»: zolle di terra, erba e muschio con la parte erbosa rivolta verso alla struttura in modo da evitare dispersioni di calore ed infiltrazioni d’acqua in caso di acquazzoni. Alla notte i turni di guardia alla carbonaia, dal timore che si spegnesse, erano importantissimi anche perchè, in quel lasso di tempo, gli uomini potevano mettere qualcosa sotto i denti : pane secco, pecorino, lardo. Non era però escluso che qualche sera si facesse anche una buona polenta condita con quello che passava il convento o, meglio ancora, con quello che passava la bisaccia del carbonaio preparatagli con cura dalla moglie. Il lavoro del carbonaio, non solo era faticoso, ma anche lungo: dall’autunno a primavera inoltrata. il solo il taglio degli alberi poteva richiedere diversi mesi, mentre gli strumenti che utilizzava erano pochi e spesso li creava egli stesso con il legno che trovava nel bosco.

I carbonai, inoltre, costruivano una capanna come dimora con gli arredi necessari per la sopravvivenza nel bosco per lunghi periodi. Ogni carbonaio, oltre l' abilità personale maturata con l'esperienza, coniugando gli antichi saperi dei suoi vecchi, sapeva interpretare alla lettera rumori, scricchiolii, colorazioni e odori dei fumi, tipo mentre l'intero ciclo di lavorazione per fare il carbone durava sette giorni. E, poi, altre settimane fino ad ammucchiare una notevole quantità di «oro nero dei boschi». Una volta terminata la fase di combustione, il carbonaio spegneva il fuoco soffocandolo con la terra e arieggiando poi il carbone distribuendolo con il rastrello sulla superficie della piazzola.

Quando il carbone era pronto veniva immesso in grossi sacchi di juta e poi caricato sui muli che lo portavano e destinazione in centri di raccolta dai quali si irradiava per le varie città. Ad esempio, un grosso centro di raccolta del carbone lunigianese era a Palanzano (Val Cedra) dove, in località «Carbogna», carbonai e mulattieri toschi, accentravano il frutto del loro lavoro che, di lì, prendeva altre strade che avrebbero consentito ai signori di città di riscaldare i propri inverni. Quando il carbone arrivava in città, a questo punto, entravano in azione i «carbonini». Neri come pennini intinti nell’inchiostro di china, gli occhi eternamente arrossati dalla polvere, una eccezionale abilità a spalare ed una forza fisica non indifferente, i «carbonèn», nei mesi di settembre ed ottobre, quando le prime brume mattutine avvolgevano la città, ad orari antelucani, erano in giro per fare le loro consegne. Due dentro la cabina del furgone ed un terzo dietro, accovacciato su una montagnola di carbone, arrivavano là dove il padrone di casa o la servitù li attendevano con la porta aperta della cantina o della legnaia. Ed allora, gli uomini, scendevano dal trabiccolo, si mettevano sulle spalle una tela di juta o un’ altra robusta copertura e, per circa un’ora ed anche più, scaricavano la merce sollevando tutt’intorno una polvere nera e fastidiosa che, salendo dal naso, si portava in gola.

In alcuni palazzi, per evitare di salire e scendere le ripide scale delle cantine, si usava gettare il carbone dentro le fessure poste a fianco del muro, oppure in apposite botole sul marciapiedi ben protette da grate di ferro.

I «carbonini», oltre il carbone coke e l’antracite (uno lucido e l’altro opaco), legna a volontà di tutti i formati, fascine per accendere le fornacelle dove le «rezdóre» facevano il bucato, vendevano anche delle specie di «torte» (si chiamavano proprio così) composte da materiale combustibile (scarti di letame e di vinacce) che servivano proprio per attizzare il fuoco e mantenerlo acceso. Si trattava di dischi di colore scuro, simili ad un grossa torta da sagra, ma con un puzzo veramente nauseabondo che però spariva nel momento in cui la «torta» veniva bruciata. Anche a Parma erano attivi numerosi «carbonini» tra i quali: Vizzolesi in Strada Nuova, «Galinéla» e «Mondèn» in Borgo Bicchieraj, «Magnàn» in vicolo San Cristoforo e «Feräri» in Borgo Garimberti. C’era, però, chi non aveva le possibilità di farsi recapitare a casa legna e carbone per tutto l’inverno, quindi non era raro notare uomini e donne che, con uno scatolone o un sacco, si recassero dal «carbonino» per acquistare (si fa per dire) un po’ di legna da mettere sul fuoco.

Erano immagini veramente commoventi e deamicisiane di ieri, ma realmente accadute in tempi in cui la miseria, purtroppo, era l’ospite fissa in tante case. E allora, dal magazzino del «carbonèn», oltre la solita merce, uscivano molte volte tanta generosità ed altrettanta umanità specie nei confronti degli anziani soli e di quelle famiglie numerose che dovevano sfamare nidiate di bambini.

Lorenzo Sartorio

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