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Il libro

Marino Bartoletti racconta «La partita degli dei»

Marino Bartoletti racconta «La partita degli dei»

di Vittorio Rotolo

28 Febbraio 2024, 03:01

Lasciate scorrere nella vostra mente i volti di quarantasei campioni. Pensate al loro talento e alle loro fragilità, genio e sregolatezza. Con un pallone tra i piedi hanno segnato almeno tre epoche calcistiche, incantando altrettante generazioni e persino quelle che sono venute dopo di loro, affascinate dalla potenza di un racconto che si tramanda. Due selezioni stellari, per una sfida che mai si è vista prima e mai si vedrà: la serie A contro le glorie del calcio mondiale. Vialli, Maradona, Valentino Mazzola, Facchetti, Meroni, Scirea, Rossi opposti a Pelé, Puskas, Di Stefano, Eusebio, Jašin, Best e Cruijff. «La partita degli dei» (Gallucci editore) è il quarto capitolo dell'affascinante viaggio, tra storie e favole, di Marino Bartoletti, dopo lo straordinario successo de «La cena degli dei», «Il ritorno degli dei» (vincitore del Premio Bancarella Sport 2022) e «La discesa degli dei». «In quest'ultimo c'è più Marino di tutti. E anche se un papà non dovrebbe mai dirlo, è il figlio più bello dei quattro. Quello che mi somiglia di più» rivela Bartoletti.

Perché?

«Tra le pagine de “La partita degli dei” confluiscono tante esperienze personali: viaggi, racconti, partite che ho visto. Ce lo avevo dentro, questo libro. Temevo solo che, perimetrandolo al calcio, potesse riscuotere meno consensi dei precedenti».

E invece?

«Dal punto di vista delle vendite ha avuto più fortuna. Ma si tratta di un aspetto che mi interessa il giusto. Volevo che la gente capisse che non è un libro di calcio. Qui il calcio è solo un pretesto, lo sfondo dove si raccontano storie bellissime, intrise di gioie e scelleratezze, di trionfi, di cadute, di lacrime e sorrisi. Faccio rivivere persone cui ho voluto davvero molto bene».

Come Gianluca Vialli che nel Luogo ritrova Boskov e Mondonico: un incontro toccante.

«Questo format mi consente di far galoppare la fantasia. In questo viaggio Vialli vuole accanto a se le persone che ha profondamente amato. Come i suoi due maestri: quello giovanile e quello dell'età matura. Mondonico parla dei Beatles e Rolling Stones. Boskov resta lo stesso di sempre: con la sua ironia, il pragmastimo, la burbera dolcezza. Prevalgono i sentimenti di tre amici».

Tra i convocati figurano anche il difensore Andrea Fortunato, il portiere Giuliano Giuliani, l'attaccante Stefano Borgonovo.

«Il denominatore comune dei quattro libri è la carezza non data dalla vita. Un po' come a suo tempo raccontai di Pantani e Mia Martini, che dalla vita avrebbero meritato qualcosa di più. A Fortunato, Giuliani, Di Bartolomei e Borgonovo provo a restituire il sorriso. Certo, nell'occasione si regolano anche alcuni conti: Giuliani quando rivede Maradona non vorrebbe giocare. Ma alla fine la spunta la voglia di rimettersi in pantaloncini corti».

Cosa lega, nel profondo, questi dei?

«L'amore per il calcio. E per qualcosa che forse non è stato compiuto fino in fondo. Lo dice lo stesso Vialli, nel dialogo iniziale con Dio: è il modo con cui ci piace immaginarli ancora e persino pregarli, questi dei. Perché non immaginarli anche nel Luogo con addosso una maglia della nazionale e un pallone tra i piedi? In fondo, li abbiamo sempre visti così».

Quindi ce li immaginiamo, ancora o di nuovo, giovani e forti?

«Sì, nel loro massimo splendore. D'altronde, se esiste un Paradiso è giusto viverlo con la bellezza del momento migliore della propria vita, nella totale normalità. Ho chiesto lumi a un teologo: mi ha fatto l'esempio di Gesù che quando risorge chiede ai suoi apostoli di andare a mangiare. Vialli va a cercare Borgonovo ed è titubante, perché non sa come lo troverà: vedrà l'amico in piedi e non più sulla sedia a rotelle, pronto a rispondere alla convocazione. Vediamo Paolo Rossi certamente intristito del fatto che se ne sia dovuto andare presto, ma ancora tonico. Se metafora deve essere, che allora lo sia fino in fondo».

Particolare è anche il dialogo tra Raffaella Carrà e Francangelo rispetto alla scelta dello stadio.

«Difficile immaginarne uno, di stadio, in Paradiso. La scelta ricade allora su Roma e sul Colosseo, che era un sito pagano ma dove la cristianità è stata sublimata. Mi è piaciuto sdrammatizzare l'idea che, nell'arena del Colosseo, mancherebbero alcuni metri per farne un campo da calcio regolamentare. Su questo tema si confrontano il geometra Vialli e l'ingegner Ferrari. Alla fine si gioca comunque: la fantasia ha i suoi diritti».

Uno dei selezionatori è il «mago» Herrera.

«Un personaggio affascinante, un taumaturgo che ha cambiato la storia della panchina facendo la fortuna, anche economica, dei colleghi che sono arrivati dopo. Prima di lui, a parte pochissime eccezioni, non ricordavamo allenatori che avessero vinto scudetti. Herrera sapeva parlare agli spogliatoi senza una cultura particolare ma con quella grande forza della psicologia insita nella sua storia umana e professionale. È il prototipo vero dell'allenatore contemporaneo: giusto che fosse lui a guidare la selezione».

In questa partita si rinnova il duello Pelé-Maradona.

«Il Paradiso li riappacifica, sebbene il loro rapporto si fosse addolcito. Non giocano insieme, ma da avversari. E c'è un aspetto, tenero e curioso: Pelé si tiene la maglia numero 10; Maradona, di cui ho amato l'umiltà, se la toglie per affidarla al grande maetsro Valentino Mazzola. Questo propizia una riflessione: Mazzola non conosce Maradona né gli avversari, se non Puskas. In partita Meroni passa la palla a Vialli che la serve a Maradona e, da questi, la sfera giunge a Mazzola. È uno scambio tra le generazioni rappresentate».

Gigi Riva è arrivato nel Luogo, quando la partita si era già conclusa.

«Non solo lui. Anche altri che sarebbero entrati nelle due formazioni: Bobby Charlton, Beckenbauer, Hamrin. Ma per Riva non potevo non scrivere, almeno su Facebook, quello che ho definito come l'ultimo capitolo: mi piace pensare che tutti quei giocatori, una volta finita la partita, siano corsi ad abbracciarlo, Gigi, appena arrivato nel Luogo. Burgnich, Facchetti, Rosato, Anastasi, che avevano vissuto grandi emozioni al suo fianco. O lo stesso “O Rey” che aveva cercato di portarlo al Cosmos offrendogli la luna. Ma Riva, la luna e il sole li aveva trovati in Sardegna. Non è escluso che in primavera, al momento della ristampa del volume, si possa aggiungere quest'ultimo capitolo. Prima dell'abbraccio con i suoi amici campioni, mi piace immaginare l'abbraccio ai suoi genitori: il papà che non ha mai conosciuto e la mamma, morta quando Gigi stava per raggiungere il successo. E poi vorrei rivederlo insieme ad altre due persone che avevano tante affinità con lui: Gianni Mura, sardo di origine, e Fabrizio De André, sardo di adozione. Li vedo mentre, in Paradiso, fumano una sigaretta di nascosto».

Cosa vorrebbe che lasciasse, a chi lo legge, questo suo libro?

«Il risultato l'ho già raggiunto: “La partita degli dei” non è solo un libro per persone della mia età, ma incuriosisce tantissimo i giovani perché propone storie belle, utili, paradigmatiche, favole ai confini della realtà. Non ho inventato nulla, ve lo assicuro, ma solo speziato di fantasia tutto ciò che ho scritto».

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