DIOCESI
Il 24 marzo, giorno in cui nel 1980 fu assassinato il vescovo di San Salvador Oscar Romero, è dedicato ormai da tempo, alla commemorazione di tutti i missionari uccisi in terra di missione.
Anche la nostra città è coinvolta a pieno titolo in questo universale ricordo per il motivo principale di essere la “culla” di una fra le più conosciute ed apprezzate congregazioni missionarie della Chiesa, grazie al santo vescovo Guido Maria Conforti che a Parma, appunto, diede vita, nel 1895, all’Istituto dei missionari saveriani. Da quell’anno, Parma ospita orgogliosamente la loro “casa madre” dove si sono preparati e da cui sono partiti decine e decine di giovani annunciatori del Vangelo dapprima in Cina, poi in diversi territori dei quattro continenti. Sempre a Parma, inoltre, per opera del padre saveriano Giacomo Spagnolo e di madre Celestina Bottego, nel 1945 ebbe origine il ramo femminile dei missionari saveriani, ossia le missionarie di Maria saveriane che a San Lazzaro hanno ancor oggi la loro Casa Madre.
Attraverso la presenza di questi due istituti in particolare, Parma e San Guido Conforti sono divenuti l’emblema missionario per eccellenza in diverse parti del mondo, diffondendovi non solo il Vangelo ma anche un po’ di peculiare parmigianità. Purtroppo, però, in circa 130 anni di storia, anche le due Congregazioni non hanno sempre trovato accoglienza e favore nei territori di missione, anzi, spesso hanno subìto persecuzioni, prigionia e violenze indicibili, persino la morte tragica come è successo ai quindici fra saveriani e saveriane uccisi sul campo e definiti “martiri della carità pastorale” con un preciso riferimento al Concilio Vaticano II, secondo cui “il contenuto essenziale della carità pastorale è il dono di sé, a immagine e condivisione con il dono di Cristo”.
Fra i quindici saveriani uccisi in terra di missione, nel dicembre scorso la Chiesa ha proclamato Beati tre missionari uccisi in Congo nel 1964 assieme ad un sacerdote locale loro collaboratore, tre missionari formatisi a Parma, ordinati nella nostra cattedrale e partiti da Parma per la loro missione: potremmo considerarli a pieno titolo tre nostri figli. Ecco perché la giornata in ricordo dei missionari martiri acquista un significato del tutto particolare per la nostra città. Ricordo la commozione e lo scalpore con cui l’intera città apprese la notizia del loro assassinio e l’intensa partecipazione alla sofferenza dei padri saveriani, a voler significare un dolore sincero e fraterno condiviso da una collettività “ferita” nel suo intimo, proprio come se ne rese interprete l’arcivescovo Colli che, nella messa di suffragio in una cattedrale stracolma, ebbe a definire i tre missionari “nostri carissimi concittadini perché a Parma si sono compiute le azioni determinanti per la loro vita e da Parma sono partiti in nome di Dio per l’Africa. Parma era per loro la seconda casa, e per questo ci sentiamo consanguinei con loro in senso spirituale e soprannaturale. Il sangue versato per la fede comune ha reso più sensibile questo vincolo, che ce li fa considerare come nostri figli”.
Questi i nomi dei tre martiri saveriani, prossimi alla solenne beatificazione: Giovanni Didonè, 35 anni, di Vicenza; Luigi Carrara, 32 anni, di Bergamo; Vittorio Faccin, 31 anni, di Vicenza, tutti in Congo da poco più di tre anni. Difficile credere che i tre missionari fossero stati strappati così brutalmente alla vita, quando la loro unica colpa era stata quella di aver amato come fratelli quanti si avvicinavano a loro.
La tragedia, come detto, avvenne il 28 novembre 1964 durante la cosiddetta “rivoluzione mulelista”, il drammatico periodo di orrore infinito che insanguinò il Congo dopo l’indipendenza del 1960. In quello stesso anno ben 107 furono i missionari e i religiosi di diverse congregazioni uccisi in missione e, in particolare, fu novembre il mese “infernale” in cui furono circa una novantina i religiosi assassinati.
I tre missionari uccisi nel 1964 arrivarono in Congo tra il 1959 e il ‘62, nei primi anni dell’avvìo della missione in quel territorio dove c’era tutto da impiantare e da inventare. I primi saveriani pionieri nel Congo, infatti, partirono da Parma alla fine di ottobre del 1958: di essi, monsingnor Danilo Catarzi diventerà il primo vescovo di Uvira, la città sul lago Tanganika, sede della diocesi in cui operarono e operano tuttora i nostri missionari. In quella diocesi, e precisamente nelle località di Baraka e di Fizi, avvenne il massacro dei tre.
Il territorio era da alcuni mesi nelle mani dei ribelli al governo di Leopoldville e il clima nei confronti dei missionari lì presenti si faceva di giorno in giorno più ostile. Dal maggio ‘64, infatti, la missione cattolica di Uvira era in balìa dei rivoltosi che qua e là si rendevano responsabili di massacri e distruzioni nella città.
Lo stesso vescovo saveriano Catarzi con i suoi missionari furono barricati in episcopio sino all’8 ottobre successivo, quando vennero liberati da un commando belga e rinviati in Italia. Questo fatto, anzi, fomenterà l’odio dei ribelli verso gli altri missionari rimasti ormai soli a Baraka e a Fizi, tanto che le accuse più inverosimili erano state costruite ad arte contro di loro per convincere anche i più semplici che i missionari erano persone infide e pericolose. Il 28 novembre ‘64, dunque, un capo periferico della guerriglia, tale Abedì Masanga, autoproclamatosi colonnello, uccide nella missione di Baraka padre Luigi Carrara e fratel Vittorio Faccin. Lo stesso giorno il sanguinario rivoluzionario risale a Fizi con la sua jeep ancora intrisa di sangue e si arresta davanti alla statua dell’Immacolata che domina l’ingresso della missione, a pochi passi dalla chiesa.
Masanga scende dalla vettura e chiama ad alta voce padre Didonè. Questi non ha neppure il tempo di uscire che un proiettile lo colpisce in fronte. Cade senza un lamento. Il parroco locale Atanasio Joubert, che aiutava Didonè nel suo ministero, ha appena il tempo di afferrare la tragicità dell’evento. Dopo un attimo di incertezza si lancia verso una scarpata a pochi passi dalla casa saveriana. Troppo tardi: un proiettile lo raggiunge al cuore accasciandosi tra l’erba di un folto cespuglio. In un quaderno di appunti che padre Didonè aveva scritto nel fervore degli inizi della sua missione si sono trovate queste considerazioni: «La vita del missionario è la più bella di tutte. Solo la morte sarà più bella di questa vita. Il martirio è il più grande di tutti i doni».
Con convinzione ed entusiasmo i tre missionari avevano fatte proprie le parole del Santo Conforti: «Il missionario è la personificazione più bella e sublime della vita ideale... pronto a spianare tutte le difficoltà che incontra, armato unicamente della croce di Cristo, pronto sempre a versare il proprio sangue se gli sarà necessario per il bene dei fratelli, anzi col desiderio nel cuore nel suggellare col martirio il proprio apostolato».
Parole che ci appaiono, con tutta la loro forza profetica, scolpite nella vita di questi coraggiosi soldati di Cristo, martiri contemporanei della carità pastorale, che Parma annovera come figli prediletti e saprà invocare come suoi ulteriori protettori.
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