Intervista
Dopo la “prima” nazionale al Carignano di Torino, comincerà da Parma (domani e giovedì, Spazio grande di Teatro Due, ore 20.30) la tournée de «La ragazza sul divano» del drammaturgo norvegese 64enne Jon Fosse, premio Nobel per la letteratura.
Il “battesimo” parmigiano del tour suona di buon auspicio al regista e attore Valerio Binasco, legato al Due da un passato di proficue collaborazioni in residenza («Parma un grande amore»).
La trama è apparentemente semplice, il ritmo minimale: una pittrice di mezza età sta lavorando al quadro di una giovane ragazza su un divano. L'immagine della giovane la perseguita, mentre lei vacilla sulle proprie capacità artistiche...
Valerio Binasco, cosa di questo testo le ha “titillato” l'anima per dire: “voglio metterlo in scena”?
«Due elementi mi hanno sedotto. Il primo è che si tratta della messa in scena della forte crisi creativa di un'artista e chi fa il mio mestiere conosce molto bene l'ambivalenza di odio e amore che si prova. L'altro elemento è stato il fatto che, parlando di sé, questa donna dà vita ai suoi ricordi e alle presenze che abitano in maniera ossessiva la sua solitudine: quindi vediamo apparire in scena il passato e il presente, come se non ci fosse nessuna differenza fra l'uno e l'altro. Quando il teatro si può permettere queste piccole “magie”, senza nemmeno ricorrere al trucco del flashback a cui il cinema ci ha abituato, mi sembra sempre un fatto molto poetico».
Fosse appartiene a quella scuola norvegese e nordica che, per latitudini e per indole, ha una grande attenzione alla riflessione sull'esistenza. Fin troppo facile pensare a Ibsen o al “vicino di casa” Ingmar Bergman. Cosa trova di accattivante in questa scrittura “minimalista”?
«Da un po' di tempo in qua sembrava che la scrittura teatrale contemporanea predicasse un silenzio, un “non detto” o “non dicibile”, come se la società fosse colpevole della crisi della comunicazione. Pensiamo a Pinter. Con Jon Fosse l'inversione di tendenza è abbastanza interessante: i personaggi continuano a non parlare, usano pochissime parole e molti silenzi. Ma questi silenzi sono pieni di significato, sono pieni di un urlo trattenuto in cui sembra che tutti condividano l'esperienza della vita come un mistero. E ogni volta che la vita ci appare come un grande mistero, siamo vicini a qualcosa di spirituale, non dico di religioso, ma di molto spirituale. E quindi è una scrittura silenziosa, quella di Fosse, però piena di una strana “pietà” nei confronti dell'esperienza umana».
Tant'è che i protagonisti non hanno un nome proprio.
«Scompaiono i nomi dei protagonisti: sono L'uomo, La donna, La madre, La ragazza, Lo zio... perché sono rappresentativi di figure umane “neutre”, nel senso che siamo un po' tutti la stessa persona».
A proposito di personaggi, la protagonista femminile è Pamela Villoresi, icona del teatro: per quali caratteristiche l'ha scelta?
«Perché Pamela nello stesso tempo ha una predisposizione per la tragedia e per l'ironia; mantiene un certo sapore dell'infanzia. Ogni tanto è come una bambina, altre volte è una persona molto saggia; è una persona capace di rappresentare fino in fondo e senza paura il dolore umano. E poi volevo un'attrice anche che ci portasse la sua esperienza con il grande teatro, delle grandi parole, quello che Pamela ha praticato per decenni insieme ai grandi registi delle generazioni passate. Questa abilità, stretta qui in una dimensione così minimalista, mi sembrava che potesse dare origine a un corto circuito stilistico interessante. Questo mi ha permesso di approfondire ancora un po' quella che io chiamo, con autoironia, la mia “via mediterranea” di cercare Jon Fosse».
Siete stati in scena al Carignano, dal 5 al 24 marzo: il pubblico come ha reagito?
«Temevo ci fosse la consueta “s-voglia” di accostarsi alla drammaturgia contemporanea, quando la drammaturgia contemporanea si avvicina a temi malinconici più che drammatici. Invece abbiamo avuto un grandissimo successo. Quindi c'è da brindare: a questo punto a Parma, a lambrusco!».
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