Intervista
«Il mio ultimo romanzo che ho ambientato a Parma, splendida città d’arte invidiabile per tantissime qualità, in cui risiede la famiglia protagonista della storia, ha molte attinenze con “Va dove ti porta il cuore”. Innanzitutto la forma epistolare, e poi il fatto di una persona che scava dentro di sé, cercando di illuminare oltre se stessa l’umanità con cui ha vissuto».
Dal 1994 ne è passata di acqua sotto i ponti, ma anche trent’anni dopo il suo straordinario, indimenticabile long seller, il cuore di Susanna Tamaro continua a battere con uguale intensità in «Il vento soffia dove vuole» (Solferino, 240 pagine, euro 17). E di questo romanzo che ha presentato anche alla manifestazione «Monfalcone Geografie» articolata sulla mappa dei sentimenti e sulla dittatura del denaro, evidenzia intrecci e somiglianze: «In “Va dove ti porta il cuore” c’è il rapporto forte e giulivo di una nonna con la nipote, ma qua c’è una famiglia complessa che la protagonista, Chiara, alla soglia dei sessant’anni, in un raro momento di solitudine, racconta in tre lettere. La prima è destinata alla figlia adottiva ventenne Alisha, la seconda alla figlia naturale diciottenne, la critica Ginevra, e la terza al marito Davide di cui ammira e ama la solidità anche nei momenti più bui che devono attraversare per una calunnia. Nelle lettere è presente anche il piccolo di casa arrivato molti anni dopo, inatteso ma molto amato. Non è stato facile costruire il temperamento di tutti i personaggi attraverso gli anni: è stata una costruzione complicata, un romanzo molto impegnativo da scrivere, ma mi ha dato grande soddisfazione, perché ricreando le emozioni e le angustie della vita si rivelano tutte le complessità dell’umano».
Che cosa sta succedendo all’umanità?
«Nel 1994 quando scrissi “Va' dove ti porta il cuore” il mondo era ancora novecentesco se non ottocentesco, ma in questi trent’anni c’è stata una tale accelerazione negativo-degenerante nell’umano, che oggi scrivere una lettera è quasi un atto di ribellione contro un sistema; quasi un atto di rivolta contro questo tempo di cui non rimarrà alcuna memoria perché nessuno scrive più lettere: solo messaggini, sprazzi virtuali che si dissolvono nel nulla. Non avremo più quel patrimonio immenso che ci ha tramandato chi ci ha preceduto, accumulando nelle lettere le proprie sensazioni».
Perché la memoria è importante?
«La memoria è la nostra radice. Noi siamo quello che abbiamo alle spalle: dobbiamo capire e non dimenticare un passato essenziale per la nostra crescita. Quelle che verranno dopo di noi saranno generazioni disperate perché non hanno una memoria. Noi abbiamo avuto una storia importante, nonni che hanno vissuto la prima e seconda guerra mondiale, affrontato durezze per la comprensione della vita, e ci hanno fatto crescere consapevoli d’una realtà difficile. Adesso la storia non c’è più, tutto si consuma ogni giorno sui social e questa è una grande povertà. E l’uso fin da bambini di cose elettroniche, credo devasti parecchio il cervello: fa perdere l’attenzione, rende molto semplici, manovrabili e incapaci in situazioni complesse».
Davide è credente, Chiara dubbiosa...
«Dal punto di vista spirituale stiamo passando da una fede sociologica per tradizione senza troppe domande, ma cerchiamo una risposta più grande. Dobbiamo ripartire da zero, con i dubbi con le grandi domande che cercano orientamenti positivi».
I malumori in famiglia vanno chiariti subito?
«Bisogna avere sempre il coraggio di parlare, sminare, perché le cose che non si chiariscono subito diventano delle bombe atomiche. Nel romanzo ho voluto evidenziare la differenza tra le due famiglie di Chiara e Davide, - perché in Italia ci sono tante dissomiglianze -: se una ragazza di una famiglia aristocratica del Nord sposa un ragazzo delle montagne del Molise è qualcosa che causa sempre un po’ d’attrito. Raccontare questa diffidenza è stata una sfida in cui ognuno fa un passo avanti per venirsi incontro».
Qual è la via più diretta per arrivare al cuore delle emozioni?
«Tutti, anche chi proviene da una famiglia sgangherata e disturbata, hanno un approccio interiore in cui riconoscere - non solo in ambito familiare -, certi passaggi, autostrade o scorciatoie che hanno suscitato emozioni e propiziato quel benessere sentimentale indispensabile ad ogni essere umano. Debbo dire - senza retorica -, che dopo trent’anni in “Va' dove ti porta il cuore” i lettori ritrovano le emozioni di sempre e sono in un certo senso illuminati in qualche parte profonda dell’animo. I libri che abbiamo amato e amiamo riletti nel corso degli anni riservano sempre delle sorprese perché diversi sono i nostri stati d’animo, e si capisce quanto c’è di stratificato nel libro e nei nostri cuori. Questo è il segreto della letteratura che ha tanti livelli di comprensione, e per questo sarà sempre una ricchezza».
Lei scrive che tutto quello che ha costruito la nostra umanità è stato costruito alla luce traballante di una fiamma. E ha dato felicità. Ma che felicità invece ci ha dato il progresso?
«E' una cosa che mi domando spesso, perché la vita di domani la vedo sofisticata in tanti aspetti. Spesso si vive sognando di possedere un servitore magico pronto a soddisfare ogni richiesta. In realtà il servitore ascolta ma non esaudisce perché l’utopia resta utopia. Quello in cui viviamo è un mondo molto opaco: la misurazione reale sarebbe la felicità delle persone, ma siamo tutti più infelici, e questo vuol dire che la società è arrivata al limite. Bisognerebbe capire cosa fare per scavalcare questo limite, riportare l’umanità nell’umanità. Ma non vedo grandi passi in questo senso. La nostra è una galoppata verso un futuro mitologico che ha un cuore distruttivo».
Dio ama gli uomini veri, non i servi sciocchi dice un personaggio del romanzo: la Chiesa vive nel tempo ma, come lei scrive, è sempre affacciata sull’eterno?
«In questo momento è molto affacciata sul presente, e dovrebbe ritornare all’eterno: è la dimensione a cui è sempre appartenuta, ma i tempi sono molto difficili e complessi anche per la Chiesa, per cui è complicato rapportarsi ai tempi e parlare alle persone. C’era un linguaggio diverso una volta, e bisognerebbe ritrovarlo».
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