Concerto
Il programma disegnato da Enrico Onofri per il concerto conclusivo del ciclo beethoveniano, con le due prime Sinfonie, offriva una chiave significativa per arricchire il contesto e allargare la cornice entro cui il genio di Bonn ha operato trovando come compagni di strada Rossini e Paër, il primo il cui astro illuminò con sorprendente vividezza il cielo musicale di Vienna, facendo non poca ombra a Beethoven, l’altro presenza che Beethoven non ignorò e forse considerò con interesse; musicista a suo tempo di grande evidenza, oggi confinato nel silenzio della storia.
Per molti parmigiani il nome di Paër rimanda solamente al piazzale che fiancheggia il Teatro Regio, unico legame con la musica di questo nostro concittadino che invece ai suoi tempi godette di una fama straordinaria: ammirato a Vienna, forse anche da Beethoven come sembra, prediletto da Napoleone che se lo portò a Parigi dove, dopo aver occupato il ruolo di maestro di corte e di insegnante di Maria Luigia, gestì le sorti del Teatro Italiano con uno strapotere che solo l’affermazione di Rossini farà inevitabilmente declinare, nonostante i tentativi di Paër di oscurarlo, da cui l’accusa di Stendhal di essere «riuscito a tenere per otto anni nascosto ai parigini Rossini».
Il programma rievocava la presenza viennese di Paër con l’ouverture di «Leonora ossia L’amor coniugale» che precede di un solo anno la beethoveniana «Leonora» (poi «Fidelio»); il ricordo ci riporta alla meritoria ripresa negli anni Settanta al nostro Regio dell’opera paëriana con l’illuminante direzione del grande Peter Maag.
Entro tale cornice ecco dunque le prime due Sinfonie che ci riportano all’approdo a Vienna nel 1792 del giovane Beethoven dalla nativa Bonn, con l’augurale viatico del conte di Waldstein di «ricevere lo spirito di Mozart (morto l’anno prima) dalle mani di Haydn», consiglio accolto con la prudenza dettata dalla difficoltà del confronto, quello con le grandi ultime Sinfonie di Mozart e di Haydn e al tempo stesso dal fremere di quegli spiritelli che rompevano l’indugio a uscire al Settecento; e che miravano a destare sorpresa nel pubblico, come il bizzarro, disorientante inizio della Prima, subito riassorbito dal fluire fresco di quell’invenzione che contrassegna le due Sinfonia.
Una matrice settecentesca che è parsa trovare un rafforzamento di quella linea con cui Enrico Onofri ha orientato la lettura delle precedenti Sinfonie, con quel vitalismo che spingeva il formarsi della struttura architettonica secondo un ordine strutturale che diventava motore primario del discorrere, con una dinamica fortemente scorciata, angoli netti, contrapposizioni decise, il tutto sospinto da un’energia che risultava omologante, annullando le distanze stilistiche tra i tre compositori in programma (con la sorpresa per molti di quella ouverture di «Aureliano in Palmira» che Rossini avrebbe poi riciclato nel «Barbiere di Siviglia» ).
Esito di indubbia efficacia, a giudicare dal caloroso apprezzamento del pubblico, nella tensione energetica in cui si sono disperse tante sorprese che questo giovane Beethoven non cessa di rivelare, in particolare quell’impalpabile ironia che l’altra sera appariva come un sorriso a denti stretti.
Gian Paolo Minardi
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