Tutta Parma
«I matrimònni dal gióron d’incó i balon cme il dinteri». A pronunciare questa emblematica frase un anziano in un circolo oltretorrentino, gotha della più schietta parmigianità. Un tempo, specie nelle nostre campagne, il lungo iter per arrivare al matrimonio (che, nolente o volente, doveva durare) per le ragazze iniziava la notte del 25 di gennaio. In quella notte le giovani consultavano il fato e il mistero. La notte in questione coincideva con la ricorrenza di «San Pàvol di siggn» (San Paolo dei segni). Le future spose, prima di andare a letto, riempivano una scodella d’acqua che veniva appoggiata sul davanzale della finestra. Il freddo della notte avrebbe provveduto a disegnare nell’acqua, che si trasformava in ghiaccio, degli strani arabeschi. Il mattino seguente, le ragazze, si precipitavano a ritirare la scodella e, sfoderando tanta fantasia, si cimentavano, con l’aiuto delle mamme e delle nonne, a decifrare quegli strani disegni che la notte aveva inciso nel ghiaccio. Pochissime volevano scorgere un badile o una vanga in quanto il magico verdetto avrebbe voluto significare un matrimonio con un «pajzàn» e, quindi, si prospettava alle ragazze una vita di lavoro e di fatiche come spettato, magari, alle loro mamme e nonne. La beffa più grossa sarebbe stata se l’acqua non avesse riprodotto nessun segno. Ciò avrebbe significato che, di matrimoni in vista, non ce n’erano ed, allora, bisognava attendere il responso di un’altra notte particolare e, cioè, quella del 30 aprile: la «notte degli smaggi» nel corso della quale, prima della mezzanotte, le ragazze da marito interrogavano il cuculo circa gli anni che le separavano dalle nozze. «Oh cucù dal nì, cuant’an' par tór marì?» (oh cucù del nido, quanti anni dovrò attendere per prendere marito?). Tanti erano i «cucù» dell’uccello quanti sarebbero stati gli anni che la ragazza doveva ancora sospirare prima di sposarsi dopo avere ascoltato trepidante, sempre la notte del 30 aprile, le cantilene dei «maggianti», alcune delle quali bene auguranti, altre un po' meno specie nei confronti delle ragazze più bruttine le quali avevano pure l’amara sorpresa di trovare alla mattina, dinanzi alla porta, invece di mazzo di gaggie, magari un vecchio ed arrugginito attrezzo agricolo.
Un'altra delicata fase da superare nel tragitto per convolare a giuste nozze e pronunciare il fatidico «sì» era la magica notte di San Giovanni: il 23 giugno. Infatti, complice la «rozäda», San Giovanni, in quella notte, avrebbe fatto affiorare eventuali «inganni» da parte di uno o dell’altra. Le tradizioni nuziali si perdono nelle notte dei tempi. In talune zone la sposa precedeva addirittura la banda nella quale non poteva mai mancare il violino ed il contrabbasso. In altri paesi era usanza, se lo sposo era un forestiero, sbarrare la strada al corteo con una catena di fiori proprio per fare «pagär dàsi» (pagare dazio) allo sposo che era costretto a sborsare qualche soldo se voleva impalmare la sua bella. Questa sorta di liturgia ha radici antichissime e spiega la riluttanza di una comunità a concedere una giovane del paese o della contrada ad un «foresto».
Altra usanza nuziale era quella secondo la quale la ragazza doveva portarsi per dote una bella scopa per dimostrare alla suocera, che l’attendeva sull’uscio di casa, di essere una provetta «rezdóra». Quando uno dei tanti figli si sposava, non appena la giovane moglie entrava nella casa ma, soprattutto, entrava a fare parte della famiglia, la suocera le rivolgeva la fatidica domanda: «sit bón’na äd fär la fojäda?». Le risposte erano quasi sempre imbarazzate anche perché, a quelle povere e giovani ragazze, mancava l’esperienza nel tirare la sfoglia. Ed, allora, iniziavano le lezioni delle anziane ed austere suocere e delle mature cognate. Comunque, anche se la giovane sposa imparava a fare la «fojäda», per la «vécia», non andava mai bene. D’altra parte, un saggio adagio contadino, a tale proposito, così recita: «tra nòna e nóra, ìn-t-al tavlér, la bón'na farén'na (l’armonia) la dura cme la néva marsolèn'na».
Un’altra tradizione in alcuni paesi di montagna era l’appiccare, dinanzi alla casa degli sposi, un grosso falò (battezzato «baldoria») attorno al quale gli amici della coppia danzavano e cantavano fino a che il fuoco non si spegneva, accompagnando questo rito propiziatorio con abbondanti libagioni. La «cioccona», invece, era un’usanza diffusa nella bassa reggiana e nei paesi del parmense che vi confinavano. Con la «cioccona», dal termine dialettale «ciocär» (fare baccano), si prendevano di mira le unioni tra uomini e donne attempati, tra scapoli e vedove, tra giovani donne e maturi benestanti, oppure tra giovanotti e ricche e mature signore. I «cioccatori», armati di fischietti, tamburi, padelle coperchi e trombette iniziavano il loro concerto notturno sotto la casa degli sposi fintato che la coppia si arrendeva consegnando agli inopportuni suonatori bottiglie di vino, salumi e dolci. Ai piedi del letto, in certe zone, veniva posta una tavola per evitare che gli sposi cadessero a terra presi dalla foga della prima notte.
E, a proposito di camera da letto, mesi prima del matrimonio, entrava di scena il materassaio al quale spettava il compito di rigenerare i materassi per l’alcova d’amore dei due piccioni novelli. Dalle nostre parti la dote della sposa era accuratamente stipata, nei giorni che precedevano il matrimonio, in quei capaci armadioni tra naftalina, petali di rose benedette, spighe di lavanda e santini per preservare così la biancheria dall’assedio delle tarme. Inoltre, le nostre nonne erano convinte che i sacchettini di lavanda, posti all’interno dell’armadio, avessero significati più profondi. Infatti, le sposine ancora «acerbe» ed inesperte, con quella biancheria ingentilita dal profumo di lavanda, avrebbero affrontato in modo più sereno e meno traumatico le intense notti matrimoniali con un marito spesso e volentieri rozzo e molte volte più anziano. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che, un tempo, molti matrimoni, specie in campagna, venivano combinati e, quindi, alle ragazze, non restava altro da sperare che incappare in un consorte comprensivo ed il meno bifolco possibile. La lavanda, dal canto suo, doveva poi fare il… miracolo! Il fatidico giorno (scelto, per lo più, nella stagione primaverile) era scandito dalle note della banda, protagonista della giornata, sia prima che dopo quando tutti gli invitati, terminato il pranzo, si abbandonavano in spericolate mazurche. Lo sposo vestiva solitamente di scuro con un fazzoletto al collo, mentre la sposa indossava l’abito che era stato confezionato da lei stessa, dalle sorelle e dalla madre. Lo sposo non si presentava mai a mani vuote ed, in talune località, era tradizione che portasse al suocero una paio di capponi o polli. Il lauto pranzo prevedeva gli immancabili e tradizionali anolini, quindi i lessi, gli arrosti, la cacciatora ed infine le fritture di coniglio e di galletto novello. Dopo la rituale torta, che un tempo non prevedeva certo panna montata, frutta o artifici vari, ma era un dolce casareccio forte e robusto come le massaie che lo avevano preparato, era usanza che gli sposi dopo l’ultimo brindisi, si ritirassero nella loro camera dove li attendeva un lettone in ferro o in legno massiccio opportunamente impreziosito da lenzuola candide e ricamate sulle quali poggiavano cuscini dalle federe svolazzanti dove erano state artisticamente ricamate le iniziali di lei e di lui. E, mentre gli orchestrali, oramai stremati dopo mai contati bicchieri di rosso e di bianco proponevano l’ennesima polka o un’effervescente mazurca, i due «piccioni», nell’intimità dell’austero camerone, si giuravano eterno amore dandosi rigorosamente del «voi» come nel caso dello sposo che, rivolto alla moglie, molto delicatamente gli rivolgeva la tradizionale e fatidica frase: «rezdóra, stasira, pòsja mancärov äd rispét?».
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