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Primavera di una volta: ode alla polenta con i prugnoli

Primavera di una volta: ode alla polenta con i prugnoli

di Lorenzo Sartorio

29 Aprile 2024, 03:02

Se oggi la polenta è divenuta un cibo prevalentemente invernale, una volta, per i nostri vecchi, rappresentava il pasto quotidiano per tutto l’anno. Quindi, anche in primavera, a tavola, c’era la cara vecchia polenta accompagnata dalle verdure e dai funghi di stagione. In primavera, i funghi che si trovavano nei prati erano i prugnoli, i famosi e squisiti «bergnó». Il popolare fungo prugnolo o di «San Giorgio» inizia ad apparire in primavera e si presenta in gruppo tra i cespugli di biancospino e di rosa canina. Il suo accentuato profumo è di farina mentre il suo nome deriva dal fatto che, spesso, cresce ai piedi del prugnolo, un arbusto selvatico molto diffuso anche da noi. E’ chiamato anche «Fungo di San Giorgio» perché, secondo la tradizione popolare, dovrebbe fare la sua comparsa il 23 aprile, giorno in cui ricorre la festa del Santo del drago.

A seconda delle condizioni meteorologiche, questo fungo, può fare la sua comparsa ai limiti dei boschi o anche nei prati, aggregandosi, spesso, in quelli che vengono chiamati i «cerchi delle streghe». In passato, per la «rezdóra», il cuocere la polenta non era un lavoro comune come l’accudire alle altre faccende domestiche, ma si trattava di un rito come quello di fare il pane, la spongata nel tempo di Avvento, le torte della sagra, il nocino di San Giovanni, il brodo e gli anolini di Natale o il sugo d’uva in occasione della vendemmia.

Ma il rito della polenta rivestiva ancor più sacralità in quanto rappresentava un antico «mangiare» la cui esecuzione prevedeva dei piccoli segreti che si tramandavano di madre in figlia. Le donne di casa, dopo aver riempito il paiolo di rame con l’acqua del «sambòt» ed avervi aggiunto una presa di sale, lo appendeva al gancio del camino e, grazie al miracolo del fuoco, iniziava il lungo e antico rito la cui liturgia era officiata da una vestale che indossava i paramenti padani: un «scosäl» (grembiule) nero fumo, una mantellina di lana «spära brén’na» («ripara brina») sulle spalle e un fazzolettone nero in testa per riparare i capelli dal fuoco e dal fumo. Non appena l’acqua bolliva, la «rezdóra», con abile gesto dalla mano che ricalcava quello delle sue ave, oppure lentamente con l’apposita paletta di legno, gettava nel paiolo quella polverina gialla come l’oro che, per magia, dopo un po' di tempo si rapprendeva, mentre la donna, ricurva sul camino e bagnandosi di tanto in tanto gli occhi, continuava pazientemente a mescolare con il «polintén» (bastone incurvato) l’incandescente lava affinché non facesse grumi. Intanto nel paiolo si compiva il «miracolo della polenta» con quei piccoli soffioni che esplodendo a ripetizione («lofir»), quasi si trattasse di un fenomeno vulcanico, annunciavano che ormai il tempo di cottura stava scadendo.

Quando, a suo avviso, la polenta era cotta al punto giusto, la «rezdóra», afferrando il paiolo per il manico e proteggendosi le mani con un panno, versava il tutto sulla tavola (ovviamente la tovaglia la si stendeva per Natale, Pasqua e la sagra). Un magma giallo colava sul vecchio e tarlato tavolo di legno. Il rito del taglio della polenta, solitamente, era affidato al «nonón» e cioè al più anziano il quale, con il tradizionale filo di canapa («canva») era in grado di fare fette precise, ma soprattutto uguali per tutti senza fare distinzioni ma, soprattutto, perché un solo pezzetto non andasse sprecato. Ogni commensale aveva la propria fetta sulla quale veniva «somministrato» (con la precisione e la parsimonia dello speziale) un cucchiaio di sugo rosso fatto con conserva, una fetta di lardo, un uovo e, nel periodo giusto, con i funghi.

Prevalentemente in occasione della ricorrenza dei «Santi e dei Morti», una saracca o un’aringa venivano appese al trave con un filo in modo che, penzolando sulla tavola, ognuno strofinava la propria fetta gustando, in modo virtuale, il pesce affumicato. Se a mezzogiorno la polenta rappresentava il pranzo, a merenda (sulle braci del camino), era appannaggio dei ragazzi il più delle volte «sorda», ossia senza nessun’ altra aggiunta. Mentre invece, alla sera, costituiva la cena in compagnia di fagioli, verze, frattaglie di maiale (nel tempo in cui si uccideva il «gozén»), formaggio pecorino, oppure fritta con uova e «dolégh» (strutto). Al mattino seguente, sempre se ne avanzava, rappresentava la colazione dei ragazzi e degli uomini che la intingevano nel latte. Dalle nostre parti la polenta era di grana fina o grossa, ma pur sempre di granturco. In Lunigiana, invece, il più delle volte era di farina di castagna, ma le differenze sul suo impiego erano davvero minime rispetto a quella di mais, mentre invece nel Veneto e nelle zone del delta del Po si utilizzava la polenta bianca. Per tanti anni, quando le cose non andavano certo bene come adesso e la miseria era di casa: polenta, patate e castagne facevano parte del menù fisso di tutti i giorni. Inoltre, ai bambini che andavano a scuola, oppure agli uomini che si recavano al lavoro nei campi, la merenda («mrénda») era costituita da una o due fette di polenta che la «rezdóra» avvolgeva accuratamente in un piccolo canovaccio affinché rimanesse calda e morbida. La polenta, comunque, era il cibo più diffuso ed anche quello che offriva la possibilità alla gente di sfamarsi di più in quanto la fame era tanta, come erano tante le bocche da sfamare, mentre le risorse erano insignificanti. Molte volte la fantasia delle «rezdóre» aguzzava l’ingegno ed allora, con la polenta, si creavano tante ricette frutto di una cucina povera e spartana che doveva badare soprattutto ai contenuti più che alla forma e all’esteriorità. Ed allora, specie nel periodo invernale (che coincideva con un’assoluta penuria di verdure nell’orto), si ripiegava con gli unici ortaggi di stagione e cioè verza, porri ed i fagioli secchi gelosamente custoditi «in-t-al granär» (solaio) in compagnia di noci, nocciole e mele. Polenta con verza e porri era un classico per la famiglia contadina d’un tempo anche perché verze e porri (ai quali venivano aggiunte anche le rape anch’esse «ortaggio da freddo»), essendo particolarmente gustosi e facilmente cucinabili, ben si sposavano con la polenta che richiedeva, comunque, il felice matrimonio con un sugo. E se il sugo di salamino o di carne era un sogno, allora bisognava arrangiarsi con quello vegetale che avrebbe dato un po’ di tono e di… «udito» alla triste polenta «sorda».

Ciò che restava della polenta veniva poi trasferito su un tagliere di legno e coperto da un «boràs» (canovaccio) in attesa della sera dove la cara e vecchia polenta sarebbe nuovamente divenuta la sola protagonista delle spartane cene contadine dei nostri vecchi alla baluginante luce della «lùmma a òli frùsst» e delle arzille fiamme del camino. Alla polenta, l’indimenticato Mario Zambelli fondatore della «Famija Alberese» ed ideatore della «Festa della polenta» di Alberi di Vigatto, dedicò un’ode in dialetto con la consulenza di Enrico Maletti intitolata, appunto, «La polénta». La riportiamo di seguito: «Cuand l'acua la bòjja, bùtta zò la farén'na / giälda, giälda cme la bala 'd l'óv ch' a fa la galén'na, / dagh 'na mezdäda con la canéla / e mèttogh dal säl 'na, brancadén'na. / Con tanti pitànsi at' la pól mètt'r insèmma / con cicoläta äd nimäl, cól bacalà, con la casadóra, / con dal salvàtogh, con i fónz e la so' pòccia, / intant con la canéla at' contìnvi a mezdär. / L'é la tùtta bjónda cla s'ciopètta in-t-al paról, / la t' fa gnir lùsstor j'òc' cme s'at' guardìss al sól. / Frìtta, 'rostida, da 'na bräva rezdóra, / 'na bontè con la gorgonzóla. / Mìssa in-t-al lat par la clasjón, / a 'n gh'è njénta da dir ragàs, / la polénta l'é bón'na dabón».

Lorenzo Sartorio

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