INTERVISTA
Nico Piro fa il giornalista da tanti anni. È inviato di guerra per il TG3 e ha coperto i fronti più caldi del mondo: dall’Ucraina all’Afghanistan.
Ha scritto numerosi libri e parecchi documentari. È direttore di Mojo Italia, il primo festival di Mobile Journalism italiano. Il suo libro «Se vuoi la pace, conosci la guerra» (HarperCollins, pag. 208, euro 14) è in libreria dalla settimana scorsa.
Venerdì alle 18 sarà protagonista all’Lsd Festival di Fidenza con una conversazione dal titolo «L’informazione oltre la retorica della notizia». Lo abbiamo intervistato su questi temi.
Hai scritto un libro molto particolare – uscito la settimana scorsa – che cerca di spiegare la guerra ai bambini. Il titolo è “Se vuoi la pace conosci la guerra”. Perché hai scritto un libro che parla di guerra per giovani lettori a cui, di solito, si cerca di parlare il meno possibile dell’argomento?
«Ho scritto questo libro per due motivi principali. Il primo è che i bambini non possono essere isolati da quello che accade nel mondo. Quindi bisogna dare ai bambini e alle bambine, alle ragazze e ai ragazzi, come anche ai genitori e agli insegnanti, degli strumenti per poter affrontare questi temi. Io, da papà (Nico Piro ha due figli, ndr) e da giornalista che di guerra ne ha vista qualcuna, cerco di aiutare questo processo. Il secondo motivo è che il mito della guerra, l'epica della guerra, nasce quando siamo bambini e nasce sulla base di alcune enormi bugie, come per esempio quella che a combattersi sul campo di battaglia sono solo i soldati, quando sappiamo benissimo che in realtà nei conflitti armati si combatte in mezzo alle case e si combatte tra la gente. Così le vittime principali della guerra sono i civili».
Nell’introduzione al libro c’è una frase di Gino Strada, “non sono pacifista, sono contro la guerra”. Ti chiedo perché il pacifismo sembra essere diventato una brutta parola o, tuttalpiù, un’aspirazione utopica di menti sognatrici?
«Sono cambiate tante cose perché in primo luogo abbiamo perso, per motivi anagrafici, la memoria delle persone che la guerra l'hanno vista e la conoscevano. Parliamo di tutti quelli che hanno affrontato, da vittime o da combattenti, la Seconda guerra mondiale. Poi è successa anche un'altra cosa: ormai in Italia da oltre due anni esiste un opinionismo di guerra. Siamo tornati in un clima da anni 20 in cui chiunque parli di pace è un amico del nemico, qualcuno che non vuole bene al proprio Paese. Invece è vero esattamente l'opposto: due anni di guerra in Ucraina, tragici e inutili, lo dimostrano; così come quello che sta accadendo a Gaza ci dimostra che, dopo più di sei mesi di combattimenti, il nemico non è sconfitto e ci sono più di 30mila civili uccisi».
Secondo te come è cambiata o sta cambiando la professione del giornalista, con tutti gli sconvolgimenti tecnologici degli ultimi anni?
«Il giornalismo purtroppo è cambiato in peggio: non solo per motivi tecnologici e per la nostra incapacità, come mondo dell'informazione, di adeguarci al cambiamento. Purtroppo, è cambiato in peggio perché c’è un problema di fondo: noi non rappresentiamo più un pezzo di società. C’è un enorme scollamento tra l'informazione e i lettori. Per esempio, le statistiche ci dicono chiaramente che il 60% dei degli italiani – e i numeri stanno crescendo – sono contrari all'invio delle armi all'Ucraina e sono per una soluzione di pace; eppure, a reti unificate e sui giornali, da due anni a questa parte si sentono solo voci a favore della guerra e non si dà spazio a chi parla di pace. Questo mi sembra un esempio per capire come la crisi di rappresentanza e quindi l'astensionismo non riguardi solo la politica ma riguardi anche la l'informazione. Se c'è una crisi di rappresentanza dell'informazione è chiaro che poi c'è un c'è una fetta di lettori e spettatori che sceglie di astenersi, di non comprare più giornali e di non guardare più la televisione».
Adesso si parla molto di giornalismo di guerra che utilizza molto fonti social aperte per arrivare dove gli inviati non riescono ad arrivare. Qual è la tua opinione a partire dalla tua esperienza sul campo? È ancora importante avere degli inviati?
«Il lavoro degli inviati resta insostituibile. Il giornalismo fatto su fonti aperte, cioè sulla fotografia che tu trovi online che riesci a geolocalizzare, è sicuramente un arricchimento. In alcuni casi questo lavoro è stato decisivo, perché ormai grazie agli smartphone ognuno di noi diventa un testimone. Però c'è differenza tra un testimone e un giornalista: il testimone è colui che si trova al momento giusto nel posto giusto e ha in mano uno strumento per registrare quello che vede. Dopodiché arrivano gli esperti di fonti aperte e fanno una validazione, cioè stabiliscono che effettivamente quel video è stato girato in quel luogo, a quell'ora e in quel contesto: quindi fanno diventare queste testimonianze delle notizie certificate. Ma il lavoro degli inviati resta sempre importante perché stare in un posto, parlare con le persone, mettere in prospettiva le cose e dare una tridimensionalità al racconto è qualcosa di assolutamente non sostituibile. Io credo che non valga solo per gli inviati di guerra. Io vengo dall'informazione locale: il lavoro di raccogliere notizie sul campo è essenziale, anche quando si va sul luogo di un brutto incidente. L’errore forte che si commette, però, è voler assolutizzare il primo punto di vista: se si va in un villaggio ucraino che resiste all'invasione russa, noi raccontiamo quel villaggio, ma non siamo sicuri che quello che vale per quel villaggio valga per tutto il resto dell'Ucraina. Bisogna evitare di assolutizzare il nostro punto di vista. Siamo solo delle persone che vedono un pezzettino di un contesto più grande. Quel pezzettino spesso diventa simbolico, aiuta a capire. Ma altre volte è invece un’eccezione al racconto complessivo. Quindi, bisogna dichiarare sempre i propri limiti. Soprattutto in guerra. Dobbiamo sempre partire dalla frase, attribuita a Eschilo, che dice che “la prima vittima della guerra è la verità”».
Come è la situazione in Afghanistan, un Paese che è tornato in primo piano dopo gli attentati sanguinosi dell’Isis K?
«L’ultima volta sono stato in Afghanistan a ottobre. È un Paese dove stanno succedendo delle cose che nel bene e nel male vanno raccontate: nel male perché i talebani sono talebani e stanno cancellando una parte della società afghana, cioè le donne e le minoranze etniche; dall'altro lato c'è qualcosa che sembrava incredibile fino a pochi anni fa, cioè la pace: non si muore, non ci sono più combattimenti, si riescono a fare opere pubbliche e si vive in un clima di normalità. I talebani sono gli unici che sono riusciti a fermare lo stato islamico della provincia del Khorasan (l’Isis K, ndr) che, ricordiamo, emerge nel 2015 e che le truppe di Kabul le forze speciali occidentali non sono riuscite a fermare. Sono stati i talebani che li hanno fermati e li tengono costantemente sotto sotto pressione. Questo apre due scenari: da un lato, non potendo operare sul territorio afghano, l'Isis K è portato ad operare all’esterno del Paese; dall'altro lato c'è il collegamento con la patria storica dell'Isis, cioè una parte dell’Iraq e delle Siria: parliamo di militanti che venivano in gran parte dalle repubbliche ex sovietiche d'Asia. Quindi l’Afghanistan è una base di ritorno per questi miliziani in fuga dalla Siria verso altre destinazioni; militanti che a casa loro non possono più tornare perché sono ricercati e finirebbero in galera. Il tema è sempre lo stesso, cioè noi l’Afghanistan lo possiamo dimenticare, l’abbiamo fatto tante volte, però poi torna sempre al crocevia del mondo».
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