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I veleni di Sofia: l'ultima donna giustiziata in Italia

I veleni di Sofia: l'ultima donna giustiziata in Italia

di Lorenzo Sartorio

13 Maggio 2024, 03:01

Un «noir» parmigiano tutto al femminile quello che ebbe come teatro una zona del parmense, ma anche la città, in relazione al suo triste epilogo. Siamo nel 1833, regnante la duchessa Maria Luigia d’Austria, la vicenda si svolse a Borghetto, frazione del comune di Noceto. Colpito da un grosso tracollo finanziario Gaetano Pescatori, un sarto di città divenuto ricco grazie a speculazioni immobiliari, si trasferisce con la famiglia dalla Capitale del Ducato in campagna per tenere sotto controllo e far fruttare il podere di sua proprietà. Si presenta al padrone una coppia di contadini, Carlo Pastori e Donnina Colombini, offrendo il loro lavoro e chiedendo in cambio un locale in cui vivere. Sofia Pescatori, la figlia di Gaetano, schivata da tutti per il suo carattere ma, soprattutto, per le sue stranezze, si innamora di Carlo ed inizia, assieme a lui, una relazione proibita, chiacchierata in tutto il paese ed osteggiata dai familiari che durerà per sette anni. La gelosia e l’invidia della dispotica Sofia nei confronti della moglie del contadino, la spinge a convincere l’amante, e cioè Carlo, ad emarginare e maltrattare fisicamente la moglie.

Non sazia di questo tipo di predomino, Sofia, impone a Carlo di dormire fuori casa, lontano dalla moglie, impedendo, così, qualsiasi contatto fisico tra i due. Nel 1839, il fratello di Sofia, Enrico, stanco del disonore portato in famiglia dalla sorella, si rivolge al parroco del paese che informa prontamente le autorità. I due amanti vengono divisi dal podestà e Carlo ritorna sotto il tetto coniugale, fa pace con la moglie Donnina che mette incinta. Ne consegue una forte conflittualità ed un violento litigio tra le due donne ed un progressivo allontanamento sentimentale di Carlo da Sofia, la quale tenta disperatamente di ricongiungersi con il suo amato, senza riflettere sulle possibili conseguenze. Nonostante la speranza che Sofia Pescatori nutre affinché la rivale muoia durante il parto, nella primavera del 1840, Donnina Colombini dà alla luce una bambina: Virginia Redegonda. «Allora la passione gelosa della Pescatori -come riporta don Ferruccio Botti ( «Ferrutius») nel suo libro «La Forca d’Bretta» Tipografia Benedettina editrice - 1967) - non ebbe più limite e, mettendosi essa ad assistere esclusivamente la puerpera e non essendosi avverato il di lei desiderio che la puerpera morisse nel parto o nel puerperio, apprestandole più volte cibi e bevande nocevoli alla salute ed incaricando persino taluno a procurarle un rettile velenoso per farla morsicare, volse il proprio sdegno a danno dell’innocente bambina. Pertanto il dopo pranzo del 9 giugno affrettava la Pescatori la partenza della madre della bambina già disposta ad uscire da casa e colla chiave ch’ebbe mezzo di ritenere s’introdusse nella camera dove giaceva avvolta in fasce ed in età di due mesi e mezzo all’incirca le versò in bocca dell’acido azotico o acqua forte di cui inghiottisse la porzione che produsse entro poche ore la morte».

La colpevolezza della donna viene presto dimostrata e gli inquirenti sospettano anche la possibile complicità del suo amante. I suoi avvocati tentano, invano, di dimostrare l’infermità mentale dell’imputata e di insinuare nei giudici il dubbio sulla sua colpevolezza, ma non serve: Sofia Pescatori viene condannata a morte e sarà l’ultima avvelenatrice giustiziata in Italia. In un documento dell’epoca si evince: « dalla sentenza pronunziata dalla sezione criminale del Tribunale Civile e Criminale di Parma, è confermata dal supremo Tribunale di Revisione contro la convinta Sofia Pescatori di anni 28 condannata a supplizio sulla forca e giustiziata il 19 settembre 1840 dopo le ore 11 sul Baluardo San Francesco», luogo adibito alle esecuzioni che si trovava nei pressi della chiesa di San Francesco Del Prato. Come nel caso di altri condannati a morte, anche Sofia fu accompagnata al patibolo dai membri dell’ «Arciconfraternita di San Giovanni Battista Decollato» che aveva il compito di occuparsi dei condannati a morte nelle ultime ore della loro vita.

La Confraternita, già detta dei Santissimi nomi di Gesù e di Maria, fu fondata, per l'insegnamento della dottrina Cristiana e l'assistenza dei condannati alla pena capitale, dal gesuita padre Bruno Pietro Favre nel 1542. Nel 1565, a Parma, i confratelli acquistarono il «Guasto di Sant'Andrea» ( attuale via Cavestro) accanto alla parrocchia di Sant'Andrea e presso l'attuale chiesa di San Rocco e, in due anni, (1565-1566) si costruirono un ampio oratorio dedicato a San Giovanni Decollato divenendo la sede dell’Arciconfraternita del SS. nome di Gesù e Maria. In questo oratorio vennero sepolti numerosi giustiziati tra cui le vittime della « grande giustizia» del 1612. L’arciconfraternita ottenne di essere aggregata a quella della Misericordia di Roma. Fu prima retta da «imperatori, imperatrici e regine», indi da «ottimati e ottimate» . L’oratorio, il 21 novembre 1913, fu trasformato ed adibito ad uso profano. L’Arciconfraternita trasferì la propria sede nella chiesa di San Alessandro. Un'altra confraternita, che aveva gli stessi compiti di quella si San Giovanni Decollato, aveva la propria sede in borgo San Claudio. «A Parma- come specifica l’indimenticato Per Paolo Mendogni in una sua ricerca storica - c'erano tre “bórogh ädla Mòrta, du dedsà da l'àcua e vón dedlà da l'àcua”. Quello dell'oltretorrente si trovava tra borgo San Domenico e borgo San Giuseppe, dove oggi corre via della Salute, creata dalla Duchessa Luisa Maria di Borbone ed inaugurata il 2 Dicembre 1856: le vecchie fatiscenti misere abitazioni vennero demolite insieme alla chiesa di Santa Maria Bianca (dove era custodita la miracolosa immagine della Vergine, oggi nell'omonima chiesa delle carmelitane scalze di via Montebello) e sostituite da case comode e areate, tuttora esistenti. I due “bórogh” dall'altra parte della città correvano paralleli da borgo San Lorenzo, oggi via Tommasini, a borgo San Silvestro lungo le due fiancate di Palazzo Provinciali, demolito insieme a quello del marchese Paveri per realizzare Piazzale Borri (l'olio su tela di Baldovino Bertè del 1872 locato presso la Galleria Nazionale della Pilotta, rappresenta una veduta di questa porzione del tessuto urbano di Parma), e poi gli attuali borghi Garimberti e Merulo. Tra i due borghi si trovava l'oratorio di San Claudio, chiamato volgarmente “della morte” (come le due stradine che l'affiancavano) in quanto costruito nel 1617 dai Confratelli della Morte in una casa donata dal celebre musicista Claudio Merulo; fu sconsacrato nel 1899 e ridotto ad uso profano. Allora, uno dei due borghi acquisì il nome di borgo Garimberti, costituendone la prosecuzione; l'altro, a metà del Novecento, dopo la realizzazione del piazzale, venne dedicato al celebre musicista».

Al noir parmigiano è stato dedicato un libro: «La scandalosa tresca. Storia di Sofia Pescatori, l’ultima avvelenatrice giustiziata in Italia» interessantissima e ben documentata opera di due studiosi parmigiani : Guido Zurli ed Edoardo Fregoso ( Europa editore Roma- 2018). Il libro è impreziosito da foto di documenti originali e dalla ricostruzione in 3D del viso di Sofia.

Lorenzo Sartorio

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