Intervista
Corrado Augias è uno dei più noti giornalisti italiani. Ha lavorato nei giornali, condotto e progettato programmi che hanno fatto la storia della televisione italiana, scritto libri di enorme successo e di grande finezza sui più svariati argomenti. Sempre con un’eleganza, un garbo e una gentilezza naturale che sono il suo tratto più distintivo.
Giovedì alle 18.30 terrà nella splendida cornice del Teatro Farnese, nell’ambito della rassegna «Caleidoscopio», una «Lectio sull’Europa». Lo abbiamo intervistato su questo e sul suo ultimo libro.
Il suo ultimo libro è un’autobiografia che ha un titolo bellissimo, «La vita s’impara». Mi può spiegare in che senso la vita si impara?
«È quello che mi è successo nel senso che sono stato lento ad apprendere quali sono i modi del vivere cioè la convivenza, i rapporti professionali, quelli amichevoli e quelli amorosi. Ci sono delle regole non scritte che quindi vanno imparate, anche a costo di errori. La vita, poi, s’impara in un senso più alto e cioè si impara chi si è. Quando si è giovani, lo vedo quando vado nelle scuole, si è tutti vestiti uguali, tutti in uniforme, quasi si avesse paura di rivelare con l’abbigliamento la propria personalità. Questa è una cosa che hai il coraggio di fare solo quando hai capito bene chi sei. Il famoso conosci te stesso. Da giovane ti mimetizzi cerchi di essere uguale agli altri. È sempre stato così: negli anni ‘70 si diceva con l’eskimo sei di sinistra e con il bomber sei destra…».
Lei l’eskimo l’ha mai messo?
«No, avevo il loden e anche questo è indicativo. Mario Monti è stato addirittura…»
Crocifisso al loden?
«Sì, gli è stato appiccicato addosso. Io lo avevo comperato in Val Pusteria, perché andava di moda. Ora non si può più vedere. Ma tornando all’argomento prendiamo, ad esempio, i tatuaggi. I ragazzi spesso si tatuano perché ormai il tatuaggio - che una volta era un segno di discriminazione negativo - oggi è diventato un segno di identificazione collettiva. Si tatuano i calciatori, le persone dello spettacolo. La vita s’impara anche attraverso i libri. Attraverso le scelte di lettura capisci chi sei e cosa ti piace veramente. La vita s’impara vuol dire che è tutto una catena in cui a poco a poco tu ti costruisci – più o meno velocemente, e io e poi ci ho messo un bel po’ di tempo. E se si leggono le ultimissime righe del mio libro c’è anche scritto il perché di questo ritardo».
Lei è nato a Tripoli, ha un’ascendenza ebraica, ha avuto un’educazione cattolica e si definisce ateo. Un’identità, possiamo dire, plurale…
«Sì, una specie di crogiuolo. Mia nonna si fece cristiana per sposare un cristiano. E diventò addirittura bigotta. Nel libro racconto che una volta la sorpresi, entrando nella sua stanza, davanti alla radio in ginocchio ad ascoltare papa Pio XII. La cosa mi colpì molto. Pensai, ma allora, quando parla il Papa, bisogna stare in ginocchio. Ero molto molto piccolo e appresi un comportamento eccessivo, quasi fanatico. Poi mi misero in collegio durante l’occupazione perché c’erano i tedeschi, mio padre era nella Resistenza e stava nascosto da qualche parte col colonnello Montezemolo (Montezemolo fu fucilato con altri 334 italiani alle Fosse Ardeatine, n.d.r.). Dopo la Liberazione sono rimasto in collegio e da lì ho visto la vita cattolica dall’interno e, mi dispiace dirlo, me ne sono disamorato. L’unica cosa che mi piaceva, a parte lo studio, era un professore di italiano molto bravo che ha praticamente indirizzato la mia vita perché raccontava la letteratura in una maniera molto seducente. Poi ho cominciato il mio percorso da cittadino. Dopo il liceo è venuta l’università e mi ha aiutato una rivista che ho adorato, “il Ponte” di Piero Calamandrei. C’erano anche “il Mondo” e “l’Espresso” che era un giornale laico e progressista con quel formato gigante e le foto bellissime… Insomma, quello che cerco di raccontare è la costruzione di un cittadino nell’Italia che cambia».
«La costruzione di un cittadino nell’Italia che cambia» potrebbe essere il sottotitolo della sua autobiografia?
«Sì, proprio così. Per concludere, l’ultimo stadio della mia crescita fu la scoperta che la religione nega, ma non avere alcuna religione - perché io alla fine decisi di non scegliere alcuna religione - ti libera, ti porta a una spiritualità più alta; una spiritualità libera, laica, umana e umanistica. Una spiritualità più bella di quella legata ai riti alle preghiere e alle formule di una religione».
Il titolo della prolusione che lei terrà a Parma è «Il sogno dell’Unione europea». È ancora possibile sognare? C’è ancora speranza?
«Non in questo momento. Guardiamo come sta andando la campagna elettorale in Italia. Andiamo incontro alle elezioni europee più importanti degli ultimi anni e nessuno parla di Europa. Parliamo dei rapporti tra la Meloni e Salvini, della Schlein e delle correnti del Pd, di Vannacci… Questo vuol dire che l’Europa, in questo momento, non è nemmeno un argomento, forse anche per colpa dell’Europa. Dopo l’euro l’Unione europea è come se si fosse lanciata al di là delle sue possibilità e si fosse ritirata spaventata: non ha fatto più niente, solo piccoli aggiustamenti. La risposta alla sua domanda è questa: dipende da come andranno queste elezioni. Se ci sarà uno slancio, una consapevolezza che con le guerre alle porte è necessaria una vera Unione europea, allora andremo avanti. Se questo non avverrà e continueremo a segnare il passo».
Un’ultima domanda sul suo rapporto con la musica. E poi le chiedo qual è il suo compositore preferito?
«Si tratta di un rapporto intenso e prolungato, ma di grande frustrazione, perché la mia idea è che per avere un vero rapporto con la musica la devi saper suonare. Io ho la fortuna di riuscire a seguire le opere sulla partitura, ma avrei dovuto continuare a studiare e non l’ho fatto per mille motivi. Così ora mi sfogo facendo programmi sulla musica, intervistando interpreti e direttori. Ma non è la stessa cosa. Sul compositore non ho dubbi: è Beethoven. Mi piace tutto quello che ha fatto e mi piace come ha reagito alle sventure della vita. Era un uomo afflitto da mille mali psicologici e fisici e, nonostante questo, a 54 anni, tre anni prima di morire, ha il coraggio di scrivere l’”Inno alla gioia”. Un gesto eroico che corrisponde a un’epoca eroica. Beethoven muore nel 1827 e Napoleone muore nel 1821. Era un’epoca dove l’eroismo e i grandi sentimenti erano possibili. Io credo che Brahms, che voleva diventare Beethoven, non ci sia mai riuscito, non perché non fosse bravo - le sue quattro sinfonie sono una meglio dell’altra – ma perché non c’era più quella temperie, quell’epoca eroica. Oggi nessuno potrebbe scrivere “Guerra e pace” o “La ricerca del tempo perduto”. Sono opere che nascono quando i tempi lo consentono. Lo spirito eroico di Beethoven e il tempo eroico in cui ha vissuto si sono rispecchiati. E questo è quello che lo fa grande».
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