Azzurri in campo stasera
Non c’è Europa senza Spagna-Italia. La sfida di questa sera alla Vetsin Arena di Gelsenkirchen, fra le due nazionali, cinque titoli mondiali insieme (4-1 per gli azzurri), è diventato un classico della rassegna continentale. A parte l’aperitivo del 1980, 0-0 a San Siro nella partita d’esordio (12 giugno), questo è un match che si gioca dal 2008, senza soluzione di continuità e nel 2012, dopo la gara d’esordio delle due nazionali a Danzica (1-1, 10 giugno), ha avuto un seguito, nella finale di Kiev, allora bellissima e attraversata da una grande allegria, del 1° luglio. L’originalità della sfida è legata al fatto che il momento d’oro del calcio iberico era cominciato sedici anni fa, eliminando l’Italia ai rigori, nei quarti di finale e si è chiuso proprio contro gli azzurri negli ottavi dell’edizione del 2016.
Dunque, si può partire da domenica 22 giugno 2008, al Prater di Vienna (stadio Ernst Happel, come doveroso omaggio a uno dei più grandi allenatori di ogni epoca): da una parte l’Italia di Roberto Donadoni, capace di sopravvivere alle insidie della fase a gironi, dopo il rovescio iniziale contro l’Olanda (0-3), riscattato dal pareggio con la Romania (1-1) e dalla agevole vittoria contro i francesi (2-0); dall’altra la Spagna di Luis Aragonés, classe 1938, allora 70 anni e 757 panchine di Primera Division alle spalle, c.t. dal 2004. La nazionale iberica era ferma al titolo europeo del 1964, 2-1 in finale all’Unione Sovietica e niente più, se non l’amara «bella» del 1984, persa contro la Francia di Platini. Ci si chiedeva perché mai fosse accaduto tutto questo e Aragonés aveva rotto gli indugi, spezzando quello che sembrava un sortilegio maligno. La fortuna, che altre volte aveva voltato le spalle agli spagnoli, in quella torrida domenica di fine giugno, aveva restituito tutto (con gli interessi) e l’Italia, che aveva sfiorato la vittoria, ma aveva sbagliato troppo davanti a Casillas, era stata costretta ad arrendersi: 0-0 dopo i supplementari e ai rigori, erano stati fatali gli errori di De Rossi e Di Natale, con Cesc Fabregas lucidissimo nel chiudere i conti (4-2). Così la Spagna era andata avanti, aveva travolto la Russia, guidata da Guus Hiddink, in semifinale (3-0) ed era bastato un gol di Fernando Torres per tornare sul tetto d’Europa, dopo un’attesa durata 44 anni, primo atto di un inedito triplete: titolo europeo, titolo mondiale nel 2010, ancora titolo europeo nel 2012. Nel frattempo, era cambiato il timoniere, perché al posto di Aragonés era arrivato Vicente Del Bosque Gonzales, bravo calciatore, grande allenatore alla guida del Real, magnifico c.t., capace di non perdere mai la testa. E se il titolo mondiale era arrivato battendo in finale ai supplementari l’Olanda nell’edizione sudafricana, con un gol di Iniesta (11 luglio 2010), all’Europeo del 2012 Del Bosque, nel frattempo divenuto marchese per i suoi alti meriti sportivi, era stato costretto a fare i conti all’esordio con quella che rimane la più bella partita della gestione di Cesare Prandelli. Un primo tempo vicino alla perfezione, aperto dal gol di Di Natale (16’), pareggiato da quello di Fábregas (ancora lui, 19’), ma caratterizzato da un’Italia coraggioso e organizzata, mai disposta a mollare, sempre propositiva e pronta a mettere alle corde la Spagna, costretta a rinviare al 1° luglio la prima vittoria sull’Italia in un torneo ufficiale (rigori a parte), dopo un’attesa di 92 anni. Quella sarebbe stata la domenica della finale e del 4-0 per gli iberici, troppo stanca l’Italia, dopo la semifinale contro la Germania, che ne aveva prosciugato tutte le energie, fisiche e nervose, troppo forte la Spagna, con Iker Casillas pronto ad alzare il trofeo di otto chili di peso e 60 centimetri di altezza, grazie ai gol di Dario Silva e Alba nel primo tempo, Torres e Mata negli ultimi dieci minuti.
Quattro anni dopo, proprio la partita con l’Italia negli ottavi dell’Europeo francese segna la fine del ciclo di Del Bosque e della Spagna ai vertici del calcio. Già due anni prima, al Mondiale brasiliano, i campioni uscenti erano stati eliminati già nella prima fase, quella a girone, travolti dall’Olanda all’esordio (1-5), battuti dal Cile (2-0) e poi vincitori, a giochi sfatti, contro l’Australia (un inutile 3-0). Eppure, sembrava soltanto un incidente di percorso, come succede anche ai più bravi. Invece era il segnale di un declino inevitabile, certificato da quanto accade allo Stade de France il 25 giugno 2016, davanti a 76.165 spettatori. La Spagna si è guadagnata il passaggio del turno, finendo seconda nel gruppo D alle spalle della Croazia; l’Italia ha dominato il gruppo E, superando il Belgio e la Svezia e permettendosi il lusso di perdere con l’Irlanda, a giochi già fatti (e per tirare il fiato). Il tiki-taka, che ha fatto grande la Spagna, diventa una specie di boomerang contro l’Italia, che Conte ha rigenerato, dopo l’eliminazione degli azzurri già nella fase a gironi (dunque identico destino della Spagna), al Mondiale 2014. Il gioco verticale degli azzurri è fatale agli spagnoli, che non solo sbattono contro l’ organizzatissima difesa degli azzurri, ma ne subiscono sempre le fulminee ripartenze: segna Chiellini al 33’ del primo tempo, raddoppia Pellé al 91’. Del Bosque saluta e sceglie la pensione, Conte si arrampica sulla panchina, per manifestare la sua felicità, uscirà ai rigori nei quarti coni tedeschi e andrà al Chelsea.
Quattro anni dopo, nella semifinale dell’Europeo è ancora Italia-Spagna, Roberto Mancini da una parte e Luis Enrique dall’altra. È il itinerante, come lo aveva concepito Platini ed è quello che si gioca con un anno di ritardo per via della pandemia. Si gioca a Wembley, 6 luglio 2021, 64.950 gli spettatori, segna Chiesa dopo un’ora di gioco, pareggia Morata a dieci minuti dalla fine. I supplementari non cambiano la realtà, i rigori offrono un grande spettacolo: sbagliano Locatelli e Dani Olmo, segnano Belotti e Moreno, poi Bonucci e Thiago Alcantara, va a segno Bernardeschi, ma non Morata e il penalty di Jorginho vale la finale, quella che permetterà agli azzurri di vincere (ai rigori), il loro secondo titolo europeo, dopo un’attesa durata 53 anni. Oggi si ricomincia. Un’altra partita, un’altra storia. Come avrebbe cantato Lucio Battisti: Ancora tu/Ma non dovevamo vederci più?
Fabio Monti
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