Ospite a «Luci d'Estate»
Dall'infanzia difficile lontano da casa fino alla capacità di abbinare brillantemente lo sport e lo studio. L'allenatore del Parma, Fabio Pecchia, ha raccontato a cuore aperto la sua storia nel corso dell'ultimo appuntamento della rassegna «Luci d'Estate» organizzato in piazza Terramare a Vicofertile dall'associazione «I cittadini di Vicofertile» con il patrocinio del Comune di Parma davanti a una nutrita cornice di pubblico.
Sul palco, assieme all'artefice dell'ultima promozione dei crociati e al giornalista Federico Casanova, c'erano anche l'assessore allo Sport del Comune di Parma, Marco Bosi, il presidente del Cus Parma, Iacopo Tadonio, il presidente della Cooperativa Insieme, Matteo Ghillani, gli interpreti più adatti a trattare il panel sport e sociale per sottolineare l'importanza dell'attività sportiva e delle associazioni di settore nel coinvolgimento dei più giovani e delle frange più deboli della società.
Testimonial d'eccezione lo stesso Pecchia, che da Lenola, piccolo paese di 4mila abitanti in provincia di Latina, si trasferì fin da giovanissimo ad Avellino per inseguire il suo più grande sogno. «Sono andato via di casa a dodici anni, oggi, se guardo ai miei figli, sarebbe impensabile ritrovarsi a quell'età a 200 chilometri di distanza da genitori e amici -sospira Pecchia - spirito e tempi sono totalmente diversi ma allora la voglia di giocare a calcio e raggiungere l'obiettivo mi diedero la forza di affrontare le difficoltà. Mi sono rimboccato le maniche e ce l'ho fatta». Un'esperienza formativa ineguagliabile dal punto di vista umano che poi gli è servita nelle tappe successive della carriera in giro per l'Italia.
«A 20 anni avevo già una struttura mentale che mi ha permesso di risolvere i problemi incontrati lungo il cammino». Che, nel suo caso, ha conosciuto un duplice sbocco. «Li ho sempre reputati due percorsi complementari perché avevo la possibilità di studiare e contemporaneamente giocare a calcio. La laurea era più un discorso personale, ho avuto la fortuna di incontrare un professore d'italiano che mi ha fornito le basi e una professoressa di diritto che mi ha invitato a iscrivermi a giurisprudenza». Non è stato tutto rosa e fiori ma alla fine «la compagna Angela, poi diventata mia moglie, mi ha triplicato, io ci ho messo dieci anni però sono riuscito a guadagnarmi quel pezzo di carta tanto desiderato». Senza mai tralasciare l'altro grande amore, il calcio, per il quale aveva lasciato tutto e tutti da giovanissimo. «Quando mi liberavo dai libri e scendevo in campo pensavo solamente a divertirmi».
E la chiosa finale si merita gli applausi e l'ammirazione di tutti i presenti. «Mi piace di più rivolgermi ai genitori e, in secondo luogo, ai ragazzi: alla base prima di tutto c'è lo studio e bisogna spingere i giovani a portare avanti le due cose senza escludere la scuola. Nel mio mestiere quotidiano sento la doppia responsabilità di vincere le partite ma anche di costruire una cultura del lavoro e richiedere ai miei calciatori di avere comportamenti seri. Dobbiamo portare il massimo rispetto verso noi stessi e le persone con le quali lavoriamo: abbiamo un grande potenziale per trasmettere messaggi importanti, soprattutto, dall'alta valenza sociale».
Marco Bernardini
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