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Musica

De Gregori al Parco Ducale: pagine chiare di brani eterni. Pubblico in estasi

De Gregori al Parco Ducale: pagine chiare di brani eterni. Pubblico in estasi

di Filippo Marazzini

25 Luglio 2024, 03:01

Sì, qualcosa è rimasto, tra le pagine più chiare (e famose) e quelle più scure (chicche per i veri fan), dello straordinario repertorio che il grande, grandissimo Francesco De Gregori ha offerto ieri sera al pubblico in estasi del Parco Ducale.

«Grazie, amici - ha esordito il settantatreenne cantautore romano, salendo sul palco in jeans, t-shirt, occhiali neri e l’immancabile cappello - in questo tour ho deciso di riproporre anche canzoni non troppo conosciute. In più, dato che la critica mi ha sempre accusato di essere un po’ ermetico - ha proseguito, ridendo - prima di cantarle farò finta di spiegarne qualcuna».

Pronti, partenza e via, a capofitto in un itinerario sonoro dove attualità ed esistenzialismo si sono saldati alla perfezione. De Gregori ha infatti lanciato il suo treno che porta al sole con un medley di «Lettera di un cosmodromo messicano» e «Cose», in cui si affastellano quesiti sul futuro planetario, per poi tornare nel passato con la mitica «Bufalo Bill». «Da ragazzino ero affascinato dal West - ha raccontato in incipit - poi, da adulto, ho cominciato a studiare la sua epopea e scoperto la storia di questo abilissimo cavaliere che venne anche in Italia e sfidò, perdendo, i butteri maremmani».

La galoppata è proseguita con altri brani tra cui la sibillina «Un guanto», nata dopo l’osservazione di una serie di dipinti di Max Klinger («godetevela senza chiedervi il vero significato, non l’ho capito nemmeno io mentre la scrivevo»: ha confessato, sornione), «Festival» («figlia di una performance di Sergio Endrigo a Sanremo») e la carceraria «Come il giorno», versione italiana da Bob Dylan.

Avanti poi con «La Guerra», lamento di un soldato disumanizzato («abbiamo preso la campagna/abbiamo perso la pietà») che ritrova però sé stesso amando la vedova di un nemico, e la sempre straordinaria «Generale». Ispirato dalla lettura di «Addio alle armi» di Hemingway (in particolare il verso delle infermiere) e riarrangiato in questa occasione con suoni duri che sembrano riecheggiare il suono delle rotaie, il ritorno a casa del superstite che pensa ai piccoli riti che potrà finalmente riassaporare, è stato davvero evocativo e struggente. Nel variegato arazzo di note e parole sono emerse perfettamente tutte le caratteristiche di De Gregori: ecco i riferimenti all’infanzia, i luoghi fisici che sfumano in spazi mentali (come nella meravigliosa «Atlantide» dove il leggendario continente perduto si personifica in una ragazza sfiorata in gioventù), la voluta confusione tra realtà e fantasia, la Storia che perde la maiuscola trasformando il privato in politico e viceversa (vedi la brechtiana «Il cuoco di Salò»). Il Parco, calato il sole, si è così fatto tenda, vagone, bar, cucina, cameretta. Ed ecco la poesia di borgata scaturire dai versi brevi, allegorici e non rimati di «Stella stellina», lo sperimentalismo nel canto asciutto, senza vocalizzi di «Compagni di viaggio» e ancora i ritornelli brevissimi (e le strofe che quasi sfumano nel talking. Fino al gran finale, con l’intramontabile valzer che anima «Buonanotte fiorellino» e la sublime, dolceamara «Rimmel». «La prima volta che l’ascoltai gettai per invidia il disco dalla finestra - ammise una volta Roberto Vecchioni - poi però scesi a recuperarlo: era un capolavoro». I lunghissimi applausi di congedo gli hanno dato ragione.

Filippo Marazzini

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