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Amarcord: quando al cinema si fumava e sulle prime tivù si mettevano centrini e soprammobili

Amarcord: quando al cinema si fumava e sulle prime tivù si mettevano centrini e soprammobili

di Lorenzo Sartorio

29 Luglio 2024, 03:01

Alla fine degli anni Cinquanta inizi anni Sessanta, la tivù la si poteva guardare, nei paesi, nella cellula del Pci, nell’osteria o nella sala parrocchiale mentre, in città, era disponibile in qualche bar, in qualche sala parrocchiale, dai pochi vicini di casa che la possedevano oppure in qualche comunità religiosa come, ad esempio, il Convento di San Pietro D’Alcantara in via Padre Onorio. I bravi e simpatici frati di questo settecentesco convento francescano installarono nel giardino conventuale un apparecchio televisivo e tante seggiole in legno che, nelle serate estive, erano completamente utilizzate dagli adulti, mentre i bambini venivano tenuti in braccio da mamma o papà. I più grandicelli, invece, con un occhio sbirciavano i barbosi programmi televisivi, ma con l’altro architettavano tremende birichinate che potevano avere per obiettivo l’orto dei frati, l’attiguo pollaio o, peggio ancora, il porcile che ospitava un grosso maiale.

Si trattava delle prime tivù, ingombranti scatoloni di legno, dai quali uscivano le immagini in bianco e nero di un’Italia che, al contrario di quella di oggi, nutriva speranza nel futuro e voglia di risollevarsi. Ed allora per gli over anta, il pensiero va ai televisori della loro infanzia, quelli dalla cassa di legno, enormi, pesanti, tozzi, tarchiati come la gente di allora. Erano i primi televisori che entravano nelle case degli italiani anni Sessanta con le cucine americane, i nuovi frigidaire (in sostituzione delle vecchie «giasäri») e la «Seicento». Il cinema, finalmente, era in casa e a portata di poltrona. Ed in città nei vari condomini, chi non possedeva ancora l’apparecchio televisivo, in certe serate particolari, come in occasione di trasmissioni molto popolari quali «Lascia o raddoppia?», «Il Musichiere», «Campanile sera», il Festival di Sanremo, le partite della Nazionale, si accomodava nella sala o nel tinello dell’ospitale vicino per gustare quello scampolo serale di felicità intervallata da qualche pasticcino o da qualche fetta di torta che la padrona di casa, molto gentilmente, offriva ai suoi ospiti.

La «mantellina» per la tivù
Possedere un apparecchio televisivo era uno status symbol. Il televisore era qualcosa di prezioso che andava manovrato con cura e conservato gelosamente. Infatti, le mamme e le nonne, non appena il tecnico aveva montato l’apparecchio tivù, si mettevano al lavoro con ago e filo per «vestirlo» con una mantellina di tessuto a fiori, a tinta unita oppure con motivetti provenzali. Inoltre, essendo apparecchi enormi, nella parte superiore potevano ospitare qualche soprammobile come la fantozziana gondoletta veneziana, oppure un piccolo paralume dotato di una fioca lampadina attorno alla quale svolazzavano le farfalline notturne.

Quando al cinema si fumava
E i cinema? Ora possiamo fruire di multisale, schermi giganti, effetti speciali, poltrone molto più comode di quelle di casa, audio perfetti, comfort a non finire, toilette eleganti. Ma ve le ricordate le sale cinematografiche di una volta? Quelle di una cinquantina d’anni fa erano molto spartane, si fumava come i turchi, le poltrone scricchiolavano e la proiezione, a volte, subiva strane interruzioni a causa di proiettori non certo sofisticati e computerizzati come gli attuali.

I cinema anni Cinquanta-Sessanta rappresentavano una piacevole meta festiva per i giovani di allora, specie per i «moróz», i quali potevano appartarsi un paio d’ore, scambiarsi qualche bacetto, senza esagerare, perché la «maschera» o il questurino della «buoncostume», che a volte si aggiravano per la sala, sarebbero potuti intervenire. «Il primo cinematografo che mi ricordo di avere frequentato da bambino è quello dell’Istituto de La Salle in vicolo Scutellari ricavato nella palestra» scrive Baldassarre Molossi nella prefazione del libro «I Cinematografi di Parma» di Giuseppe Calzolari S.e.g.e.a editrice -1988 - per i caratteri di Grafiche Step e la regia di Claudio Del Monte. «A quei tempi i cinema - aggiunge l’indimenticato direttore della Gazzetta di Parma- erano come i treni, avevano tre ordini di posti: i primi due in platea e il terzo in galleria. Quest’ultima era quella che costava meno e dove si vedeva meglio, quando si vedeva il film. Perché negli anni verdi della loro età i ragazzi portavano le ragazze negli ultimi posti non sempre con l’intenzione di assistere allo spettacolo».

Come si entrava al cinema, l’impatto era con l’avvenente cassiera che, all’interno della «cassa» delimitata da una vetrata, dal suo pertugio, dispensava biglietti, sorrisi a chi voleva lei, e caramelle. Le ricordate le «Charms» alla frutta con il buco? Mentre per i bambini non mancavano mai le «caramelle mou». Una volta entrati nella sala annebbiata dai numerosi fumatori, la «maschera» (uomo o donna), con la pila faceva strada facendo accomodare su poltroncine dal sedile ribaltabile e dal rivestimento di stoffa o di plastica. E poi iniziava la proiezione, al termine della quale seguiva il filmato della «Settimana Incom» con i fatti che accadevano nel mondo, per lo più rosa, accompagnati dalla voce di un commentatore veramente unica che sembrava prodotta artificialmente tanto era perfetta. E, dopo l’immagine del mondo che roteava di fianco ad una statua mitologica, si accendevano le luci in attesa che il film iniziasse, magari per rivederlo una seconda volta gustandone «n’ätra mèsscia». E allora, film di guerra come «Berretti verdi» erano in grado di fare sognare l’uniforme a tanti giovani (come a chi scrive) mentre l’indovinata serie di «Pane, amore e..» con gli inarrivabili Vittorio De Sica, Gina Lollobrigida e Tina Pica facevano assaporare la vita allegra e spensierata nonché gli amori e le gelosie dell’effervescente costa amalfitana dove, il galante maresciallo dei carabinieri, corteggiava la bella levatrice e il carabiniere veneto, un po’ tonto, si era innamorato dalla «bersagliera». Per non parlare dei film dell’Albertone nazionale, di quelli della serie Peppone e Don Camillo e dei western con i più noti divi americani alle testa di galoppanti squadroni di cavalleria che arrivavano sempre al momento giusto.

Le sale parmigiane
Le sale parmigiane che andavano per la maggiore a quei tempi erano il Lux in piazzale Bernieri, l’Edison in via Cavour, l’Orfeo in via Oberdan, l’Ariston in via Petrarca (in estate anche arena estiva con entrata da borgo del Correggio), il mitico Ducale in via Bixio, il Centrale in piazzale della Macina, il Verdi in via Verdi, l’Odeon in viale Piacenza, il Pace in via Cocconcelli, il Roma in viale Tanara, l’Astra in piazzale Volta (ex teatro dell’Opera Nazionale Balilla), il Trento in via Trento (ex Dopolavoro Ferroviario), il D’Azeglio (ex Stimmatini) in via D’Azeglio, il Piccolo Teatro in borgo della Trinità, il Conforti presso l’oratorio del Sacro Cuore in piazzale Volta, l’Olimpico in via Montanara, il Ritz (ex Excelsior), per i più birichini, in via Venezia e l’arena estiva Farnese in viale Solferino.

«Questo cinema all’aperto – annota Peppino Calzolari nel suo libro - era frequentato prevalentemente dalla borghesia. Viale Solferino era un quartiere distinto e, alla sera, le famiglie e i giovani si riversavano a frotte. In più era posto fra molto verde con davanti la Cittadella, per questo era sempre molto fresco. Solo nell’estate del 1944 non funzionò a causa dell’oscuramento, ma subito dopo la fine della guerra, ossia nel giugno del 1945, venne riaperto e, dal 1946, ha funzionato puntualmente ogni estate fino al 10 agosto 1956».

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