L'intervista
Arrigo Sacchi, il suo primo ricordo di Parma.
«Una telefonata di Sogliano alle 7 del mattino, io ero già pronto per andare ad Ancona. “Arrigo, anche quest'anno non vieni da noi...”. Mi aveva già cercato l'anno prima, non potevo dirgli no. Incontrai ugualmente i dirigenti dell'Ancona, ma dissi loro che non se ne faceva nulla. Addossai la colpa a mia moglie, sostenendo che a Parma aveva una cara amica e che avrebbe preferito trasferirsi lì».
Prese il Parma in serie C.
«Avevamo una rosa ampia. Preparai una lista di giocatori: cinque per ruolo, elencati in rigoroso ordine di preferenza. Della stagione precedente, rimasero in tre. Portai tutti giovani che avevo allenato a Cesena e Rimini. Arrivarono anche Landucci, che conoscevo dai tempi della Fiorentina dove ero stato responsabile del settore giovanile, e Signorini, consigliato da Sogliano. Al Parma sarò sempre riconoscente: ha creduto in me».
Una fiducia ampiamente ripagata, a giudicare dai risultati.
«Vincemmo il campionato, ma quella cavalcata non condizionò le mie scelte rispetto alla squadra da costruire per la B. Alla penultima giornata chiamai Gabriele e Righetti: erano due miei pupilli, li avevo voluti io, ma avevo anche capito che erano interessati più all'ingaggio. E a me questa cosa non piaceva. Dissi ad entrambi che non rientravano più nei nostri piani. Poi sgridai Signorini: era l'ultimo ad arrivare e il primo ad andare via, non ero soddisfatto. Due giorni dopo bussò alla mia porta chiedendomi di restare e dandomi la sua parola che avrebbe cambiato registro. Lo confermai. E in B si rivelò tra i migliori».
Il suo primo incontro con Berlusconi?
«Lui non era solito assistere alle amichevoli del Milan, ma come mi avrebbe poi confidato Galliani quel giorno contro il Parma fece un'eccezione per vedere all'opera i nazionali appena acquistati. A fine primo tempo il presidente Ceresini mi disse che Berlusconi avrebbe voluto salutarmi. Ci fu una stretta di mano: “La seguirò” le sue uniche parole».
E poi?
«Andammo a giocare a San Siro, in Coppa Italia, vincendo 1-0 con gol di Fontolan. Abbiamo avuto un po' di fortuna quella sera, lo ammetto, ma non giocammo da provinciale. I nostri terzini, Mussi e Bianchi, spingevano come forsennati sulle rispettive fasce. Da noi il più “vecchio” aveva 23 anni, eppure eravamo stabilmente nelle prime posizioni, in lotta per la A. In Coppa passiamo il girone da primi, col Milan secondo. Torniamo a San Siro per gli ottavi e vinciamo ancora, grazie alla rete di Bortolazzi».
A quel punto Berlusconi non ebbe più dubbi.
«Andai a cena ad Arcore, insieme ad un comune amico: Ettore Rognoni. Trovai il presidente e Galliani: parlammo di calcio dalle 20 fino alle 2 di notte. Berlusconi sapeva già che avrei dovuto incontrare a breve un club di A e spingeva affinché rimandassi l'appuntamento. Ma a me non sembrava corretto».
E allora, come si comportò?
«Chiamai Rognoni: “Vi ringrazio, ma venerdì andrò a firmare con l'altra squadra”. Non gli rivelai che era la Fiorentina. Lui si stupì non poco: “Ma sei matto? Ho parlato con Galliani: al 99,9% sarai tu il prossimo allenatore del Milan”. Il mercoledì tornai a casa dopo la doppia seduta di allenamento, mia moglie mi disse di richiamare Rognoni. “Arrigo, vediamoci a cena domani sera: ci saranno il fratello di Berlusconi, Confalonieri e Foscale”. Per me o erano dei geni oppure dei pazzi: glielo dissi apertamente. Firmai un contratto in bianco, scoprendo successivamente che mi davano meno di quanto guadagnassi al Parma. Gliel'ho sempre rinfacciato a Galliani».
Come nacque l'epopea del Milan di Sacchi e degli olandesi?
«Il presidente Berlusconi voleva prima di tutto che la squadra esibisse un bel gioco. Fedele a un credo: divertirsi, vincere e convincere. In Italia, in Europa e nel mondo. L'anno precedente era arrivato quinto, nonostante grossi investimenti. Da Sua Emittenza per tutti era diventato Sua Perdenza: non poteva accettarlo».
È vero che lui non era convinto di Ancelotti?
«Era perplesso. Negli ambienti romani si vociferava che Carletto fosse rotto: in effetti qualche problema alle ginocchia lo aveva. Galliani, di nascosto, andò a parlare col presidente della Roma: definì tutto, ma toccava a me convincere Berlusconi a chiudere l'affare. Lo chiamai all'una di notte, col mercato che chiudeva l'indomani a mezzogiorno. “Presidente, mi prenda Ancelotti e io vinco il campionato”. La stessa frase l'avevo detta a Cesena, quando allenavo la Primavera: volevo Zoratto. Mi accontentarono e vinsi lo scudetto. Fu così anche con Ancelotti al Milan».
Quell'estate del 1987 arrivarono anche Gullit e Van Basten.
«Però Van Basten si fece male quasi subito e dovette restare fuori sette mesi. Sulla carta non ci rinforzammo moltissimo: arrivarono Mussi, Bianchi, Bortolazzi e Colombo, che era retrocesso con l'Udinese. Più Costacurta, di ritorno dal prestito al Monza. Berlusconi chiarì che non dovevamo lottare per la salvezza...».
Nel momento difficile, tuttavia, la difese a spada tratta.
«Il momento difficile, in realtà, fu solo all'inizio: i giornalisti della vecchia guardia mi chiamavano il Signor Nessuno. Erano critiche gratuite e ingiuste, che non tenevano conto di tutti gli anni che avevo alle spalle: dalla Seconda Categoria ero arrivato in A. Io parlavo un linguaggio nuovo. Ripetevo che una vittoria senza merito non era una vittoria, che era preferibile essere ottimisti invece che pessimisti, che era importante attaccare. In Italia gli allenatori avevano paura: applicavano il catenaccio, difendendo allo sfinimento e sperando nel contropiede. Io la pensavo esattamente all'opposto».
Zona, pressing intenso votato ad attaccare e tanta corsa erano alla base del suo calcio «rivoluzionario».
«Era una mentalità diversa dal passato, quando si faceva un gol e ci si rintanava dietro. Ai miei calciatori portavo sempre un esempio: sul ring quando un pugile sferra un pugno al suo rivale, cosa fa, arretra per caso? In Italia, salvo qualche eccezione, le squadre non hanno mai giocato in 11 bensì sempre con due-tre giocatori in meno, che non correvano. Si doveva difendere. Noi siamo stati copiati su scala mondiale: oggi in Spagna praticano un calcio che è assai simile al nostro».
E al Milan come accolsero queste innovazioni?
«Insieme al preparatore atletico Vincenzo Pincolini scegliemmo volutamente di partire con carichi di lavoro più leggeri rispetto a quelli che facevamo a Parma. Eppure qualche giornalista asseriva che massacravo i giocatori: un'assurdità. Non ho mai massacrato nessuno in vita mia. Semplicemente venivo dalla fabbrica, dove lavoravo con mio padre: non ho mai visto qualcuno che faceva poco e otteneva molto. Al Milan i ragazzi erano disponibili, si applicavano, c'era una grande cultura del lavoro. Ricordo che dopo una sconfitta Berlusconi riunì la squadra nel suo ufficio: “Sacchi l'ho scelto io. Chi lo segue resterà, chi non lo segue andrà via. Buon lavoro”, un discorso di 27 secondi. Non perdemmo più fino alla conquista dello scudetto».
Oggi come vede gli altri allenatori?
«Per fortuna anche nel nostro Paese cominciamo a vedere allenatori propositivi».
Giusto per non andare troppo lontano, l'attuale tecnico del Parma, Fabio Pecchia, è uno di questi.
«Lo conosco poco, ma è bravo. Personalmente vorrei tutti allenatori strategici, mentre l'Italia ha sempre avuto tecnici dediti solo alla tattica. Come dicevo qualcosa sta cambiando: in serie A certamente, mi auguro anche in B».
Parma è rimasta nel suo cuore: agli inizi del Duemila tornò qui in panchina e, subito dopo, nelle vesti di dirigente. Come ricorda quel periodo?
«Presi Prandelli, la cui scelta si rivelò azzeccata. E riuscimmo ad inserire in rosa tanti giovani di prospettiva, che si sarebbero affermati più avanti: da Bonera a Gilardino. Disputammo diversi buoni campionati».
Mister, sabato al Tardini c'è Parma-Milan. Cosa si aspetta?
«L'auspicio è che vinca la squadra che merita di più. È la mia filosofia».
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