INTERVISTA
«Con la direzione di Alessio Vlad e Luciano Messi, il Teatro Regio sta finalmente diventando un centro aggregatore, di ricerca vasta - non provinciale o pigramente scontata in una routine del melodramma europeo. Una lodevole azione della quale pose le basi il mai rimpianto abbastanza Bruno Bartoletti».
E’ un uomo e un Maestro musicista felice, Martino Faggiani, musicista raffinato in un solido corpo vestito alla bell’e meglio, come chi non ha tempo da perdere e rifugge lo specchio: e con un viso da legionario romano, giusta la sua provenienza dal lago di Bolsena, con precoce studio matto e severo in anni di pianoforte, clavicembalo e coro, nel prestigioso Santa Cecilia di Roma. E dal 2001 paracadutato con felice lancio nella capitale del musicalissimo Ducato di Verdi e Maria Luigia.
Direttore del Coro del Teatro Regio, Faggiani ha conquistato per sé e per i coristi un prestigio definitivo con un lavoro intenso e di grande levatura, portando il Coro del Regio a un livello di raffinatezza e solidità esemplari.
Lo incontriamo alla vigilia della Messa da Requiem e dopo una serie di successi; l’Attila, il Ballo in Maschera, la serata Bussetana e il Macbeth del 1865, la versione francese diretta da Roberto Abbado: un successo straordinario.
Maestro Faggiani, quattro successi e un finale da brividi: sempre più Verdiano…
«Certo, Verdianissimo! Ho la fortuna di lavorare nella città che più d’ogni altra ha amato Verdi. E ha un Teatro che mi pare abbia le potenzialità per crescere ulteriormente. Abbiamo tutto un mondo inesplorato da valorizzare con il Festival. Dal 1850 al 1890 ci sono compositori di grande valore da riscoprire: Lauro Rossi, in primis. Sono i compositori “uccisi”, per così dire, dal Falstaff che Verdi sciorina come prodotto inimitabile che segna la fine di un’epoca, un modo di fare il Melodramma. Addio alle arie e alle cabalette ma con cosa le si devono sostituire?».
Verdi for ever dunque. La ricerca del vero Verdi dal punto di vista del coro. Lei ha diretto quattro opere e stasera alle 20.30 sarà protagonista nel Requiem.
«Ogni volta è un’emozione totale. Il Requiem è una meditazione sul destino ultimo dell’uomo. Verdi lo compose dedicandolo al Manzoni, che stimava grandemente, al punto da defnirlo “Il Santo”».
Ma Don Lisander forse non sarebbe stato contento dell’atteggiamento di Verdi nei confronti di Domine Iddio.
«Per nulla! Il Grande Roncolese dispiega nel Libera Me una potente richiesta di risposta al dramma dell’uomo davanti alla morte: e non è affatto a capo chino... Anzi grida una supplica senza trovare fiducia nel padreterno. E’ un finale angoscioso chiuso musicalmente con cupezza dagli ottoni, sopratutto dalla tromba, un finale doloroso. Sarebbe certamente piaciuto a un Leopardi: bella coppia di scettici quei due!».
Il coro ha un compito difficile nelle opere verdiane: quali sono a suo avviso le difficoltà maggiori?
«Verdi esige serietà, molta partecipazione del cuore, dell’occhio e dell’anima. Prendiamo il Va Pensiero, che ha una tonalità rarissimamente usata: il Fa Diesis Maggiore, che ha un colore dolce, è in tempo di Largo, tutto si addolcisce in questo inno che sgorga dal cuore e muove all’emozione più intensa. Prendiamo invece il coro “O Signore dal tetto natìo”: che è arroccato su un duro e inscalfibile, impietoso Do Maggiore. E qui il coro deve saper dare la sensazione di una salita a scatti, a cadute, a incespicamenti dei Lombardi assetati e disperati».
Il Macbeth è stato un trionfo per tutti, direttore e cast, coro e Lei…
«Non esageriamo il mio contributo: merito principale è del gruppo di artisti del coro, sensibili e capaci di sottigliezze e resa sempre altissima. Nel Maccbeth del 1865 ci sono cose di una bellezza insuperabile e insuperata come il coro “Patria Oppressa” che a mio parere è insieme a Va Pensiero il coro in assoluto più bello di Verdi, anzi di tutto il Melodramma».
Un Verdi che ogni tanto ha voglia di scherzare: vedi il coro canzonatorio del Ballo in maschera, quando i congiurati scoprono i due amanti…
«Sì ma dobbiamo fare attenzione perché Verdi non ama la risata, preferisce il sorriso. Il Falstaff, a suo dire non è affatto un’opera comica. Qui il coro ha la parte migliore nel finale con Nannetta e le altre donne che cantano un motivo dolcissimo».
E anche melanconico, Maestro. Possiamo dire che Verdi non amava la risata volgare: ma che da umorista finissimo sapeva far sorridere l’uomo colto nel suo impaccio?
«Certo: ma senza mai cadere nel sarcasmo feroce. Verdi elegante e nemico del sarcasmo: Verdi uomo di grande umanità»
Umanità che si rivela in ogni opera verdiana!
«Certo anche nei momenti più terribili, Verdi non condanna l’uomo e soprattutto la donna. V’è il perdono di Stiffelio, la morte di Traviata uccisa dal sistema. E comunque in tutte le sue partiture trovi momenti sublimi per umanità».
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