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Due arredi indispensabili nelle case di una volta, oltre ovviamente al camino che non era di bellezza come molti consimili installati nelle case di oggi, erano la «machina da cuzir» e la stufa economica. Quindi, in tutte le case di un tempo, grandi o piccole che fossero, di campagna o di città, della bassa o di montagna, tra i mobiletti più cari e preziosi abbelliti con pizzi o tovagliette ricamate, non mancava mai la cara- vecchia macchina da cucire, accessorio indispensabile della «rezdóra» di ieri, l’ultima ad andare a letto, la vestale del camino, l’infaticabile facitrice di polente, zuppe e minestroni, ma anche di gonne e calzoni per tutta la famiglia.
E allora, alla fioca luce di una lampadina o di una «lùmma» che metteva a dura prova la loro vista, le donne, sia giovani che anziane, armeggiavano accanto alla loro inseparabile «compagna di lavoro» facendo orli o risvolti e cucendo abiti. E quello sferragliare delle varie Singer, Necchi, Pfaff, nel silenzio della notte, rappresentava il leit motiv del duro lavoro serale delle donne di casa mai dome dalla fatica e sempre sulla breccia per soddisfare le esigenze della famiglia. Addirittura, sorsero scuole per sarte con tanto di banchi dotati di macchine da cucire come quelli di cui disponeva la Scuola Singer di Collecchio nel 1924. Contrariamente a quelle moderne: elettriche, computerizzate e silenziosissime ma, soprattutto veloci, le loro ave con l’ago erano monumentali, di foggia severa ed immancabile colore nero all’interno di un mobiletto che le faceva scomparire per assumere le sembianze di un tavolinetto di legno sul quale non mancavano mai un vaso di fiori, i ritratti dei cari estinti o altri soprammobili che potevano avere un aspetto sacro come le statuette di gesso di Santa Rita o Sant’Antonio da Padova che, solitamente, venivano collocate sulla mensola del camino.
I primi modelli di macchine da cucire erano fissi e non a scomparsa come quelli che seguirono negli anni Quaranta e Cinquanta. Erano azionati a mano e, attraverso una manovella applicata al volano, con la mano destra la «rezdóra» produceva il movimento dell’ago e della spoletta. Successivamente le macchine da cucire furono a pedale e la movimentazione si otteneva con l’oscillazione di un pedale posto sotto il tavolino in cui era collocata la macchina che, collegata ad una cinghia, produceva il movimento, quindi, entrambe le mani rimanevano libere e disponili per l’indirizzamento del tessuto. Ed a questo punto gli amarcord, per gli «over anta», non possono non andare a quei momenti in cui, di nascosto dalle mamme e dalle nonne, bimbetti con l’irrefrenabile voglia di giocare e di sognare, si rannicchiavano dentro l’angusto vano pedale e, afferrando il volano della cinghia a mo' di volante, simulando il motore con la bocca, imitavano i grandi alla guida di auto o camion. In mancanza di altri sofisticati giochi elettronici come gli attuali ci si accontentava anche di questo. E andava ancora bene così! Il gioco durava fintanto che le mamme o le nonne non si accorgevano dell’intrusione dei monelli che venivano subito allontanati dal timore che, se si fosse rotto il muliebre marchingegno, avrebbe creato grossi guai per tutta la famiglia.
Periodicamente, nelle corti di campagna, giungeva il tecnico per controllare le macchine da cucire ed anche nella nostra città non mancarono importanti punti vendita come in Borgo della Posta con lo storico negozio. Parente stretta della macchina da cucine nelle case di ieri era la stufa economica.
«Durante la guerra - scrive lo storico povigliese Sergio Gabbi nel suo bel libro il «Fascino della Memoria» (ed. Bizzochi) -predominava la cosiddetta cucina economica, una stufa con fornelli e sportelli vari utilizzata per cucinare e riscaldare. Si chiamava «economica», non certo per il prezzo che rasentava le mille lire e neanche perchè il suo funzionamento richiedesse un basso consumo di legna e carbone, ma semplicemente perché si accendeva e si puliva con estrema a facilità». Le prime stufe economiche erano di colore nero, poi arrivarono quelle bianche con i piedini a zampa di leone e i fornelli ad anelli concentrici che potevano accogliere pentole di diverse dimensioni. La legna si introduceva nel forno attraverso uno sportello posto sul lato anteriore. Il «canón» (tubo), rigorosamente dipinto di vernice argentata, si incastrava ad un altro a gomito fino ad arrivare alla canna fumaria che, immancabilmente, macchiava il muro con una patina marroncina. Alla base del tubo era prevista una valvola che ne regolava il tiraggio e ne dosava il calore. Sulla destra si trovava una vaschetta di rame o di ferro che conteneva acqua calda che serviva agli uomini per farsi la barba «insimma al s'ciär ädla cuzén'na (lavandino della cucina) dednàns a un spéc' tachè al mur (davanti ad uno specchio attaccato al muro)». E, a questo punto, i ricordi si fanno sogni a colori. Nel periodo natalizio, proprio su quell’incandescente pianoro di ghisa della stufa economica, mentre le donne preparavano gli anolini, i ragazzi, riuscendo a sottrarne alcuni dalle varie file predisposte sul «tavlér», li depositavano sulla stufa per farli abbrustolire: una bontà che preludeva al Natale. E, per dare un po’ di profumo alla cucina intrisa di puzzo «äd dolégh fritt», si deponevano sulla stufa le bucce di un arancio o di un mandarino che sprigionavano un insolito profumo mediterraneo. Nello sportellino dove si formava la cenere non era raro che la «rezdóra» mettesse a cuocere alcune patate per la merenda dei bambini mentre, al centro, troneggiava una grossa «brónza» (pentola) che emanava profumo «äd mnestrón».
Le stufe economiche dell’immediato dopoguerra prevedevano un optional in più, graditissimo alle massaie e, cioè, una sorta di aste poste al centro «dal canón» che si potevano alzare e abbassare consentendo di fare asciugare rapidamente: calzini, mutande, fazzoletti e «boràs» (canovacci). Il compito di riparare il «canón» della stufa economica o riverniciarlo con vernice argentata spettava al «ciàpa-ciàpa» (i factotum di ieri), uomini che si adattavano, per poche lire, a far tutto quello che in una casa era considerato minuto mantenimento.
E allora, quando c’era da cambiare un interruttore della luce, oppure sostituire un filo (un tempo non erano murati ed a scomparsa come oggi, ma a treccia e ben visibili sul muro), impagliare una seggiola, inchiodare un’anta di un armadio, dipingere un cancello o una porta, sostituire una serratura, preparare il giardino alla primavera, oppure «ripararlo» dall’inverno, mettere fuori i grossi vasi di oleandri, oppure in autunno riporli a dimora, riassettare la cantina o il granaio ed, infine, riparare il tubo della stufa economica... erano tutte incombenze del «ciàpa-ciàpa» che, per una casa, rappresentava un vero e proprio tesoro. «Nelle scuole e negli uffici - ricorda Gabbi - troneggiavano grosse stufe in terracotta a due o a tre ripiani che funzionavano a legna o a carbon fossile».
Ma, siccome le cose non è che andassero molto bene, studenti e impiegati, a volte, dovevano portare, a turno, un pezzo di legno per scaldarsi le ossa. Ma Gabbi non finisce di stupirci citando altre stufe: quelle che andavano a «palle» di carta bagnata fatte essiccare, quelle nelle quali - come ricordava l’indimenticato Giorgio Penuzzi, residente storico di via Padre Onorio - che venivano alimentate con «il castàgni màti dal Stradón» (castagne degli ippocastani dello Stradone) e quelle a segatura utilizzate soprattutto nei «festivàl» e nei cinema. Più che calore, questo diabolico marchingegno, emetteva un puzzo insopportabile ma, ai vispi ballerini, andava bene così...
Lorenzo Sartorio
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