Regio gremito
La questione di fondo è questa: possiamo considerare il rock musica classica? Siamo legittimati a porre sullo stesso piano della musica «colta» le migliori composizioni dell’epoca d’oro della musica «leggera»?
Domande delicate, difficile avvicinare gli ortodossi dei due mondi eppure è innegabile che siamo già oltre il semplice fenomeno delle cover band: oggi si va a teatro per ascoltare la musica dei Pink Floyd, non per vedere in carne e ossa Roger Waters e David Gilmour. E se il teatro è il Regio - tutto esaurito - e la partitura più attesa è la suite del 1970 che Ron Geesin - compositore d’avanguardia inglese - scrisse nel 1970 insieme al quartetto di Cambridge, è evidente che il «corpus» del rock sta diventando un patrimonio da coltivare, interpretare, condividere.
Esattamente come accade per un concerto di musica sinfonica composto uno o due secoli fa.
Gli italianissimi Pink Floyd Legend sono la miccia che ha (ri)acceso la passione e la musica floydiana per un concerto intenso - oltre 2 ore e mezza - e uno sforzo titanico, perché portare sul palco una band di nove elementi, incluse tre convincenti coriste, un coro di 48 voci, una sezione di 8 fiati (Verona Concentus Ottoni) e un violoncello (Rossella Zampiron), oltre al maestro Giovanni Cernicchiaro e un gioco di luci e laser immaginifico, non è cosa semplice.
La band romana esegue alla perfezione il copione: partiture rigorosamente rispettate, suono pulitissimo, chitarra e tastiere in elegante evidenza, video sincronizzati nel maxi schermo tondo d’ordinanza. E poi Alessandro Errichetti «fa» Gilmour e Manfredi Roberti interpreta Waters, rimanendo ancorati al cliché che vuole le cover band ripetere esattamente la struttura dei gruppi originali. Quando sarà superato anche il legame emulativo si potrà dire che i cataloghi del rock saranno diventati autentico patrimonio collettivo.
I Pink Floyd Legend (completati da Simone Temporale, Emanuele Esposito e Paolo Angioi) pescano nel repertorio anni ’70, tralasciando completamente il periodo psichedelico. E se i lunghi tributi a Dark Side of the Moon o l’iniziale - scontata - Shine on You Crazy Diamond sono omaggi «dovuti», i risultati migliori per un pubblico che conosce a memoria tutte le composizioni sono le scelte meno ovvie: Pigs, dal distopico e orwelliano Animals ingiustamente considerato l’anello debole dei Seventies floydiani, e poi nella seconda parte - quella con coro e orchestra - sono Southampton Dock e The Final Cut a incantare. Così come l’intensa High Hopes da The Division Bell (1994, i Pink Floyd «postumi», quelli senza Waters) è un bis che emoziona più dei canonici Comfortably Numb e Run Like Hell. Non può mancare quella seduta di psicanalisi - individuale e collettiva - che fu The Wall per Roger Waters, con tanto di gigantesco pupazzo del «teacher» né un omaggio al pianista Rik Wright nell’intensa interpretazione da parte di Temporali - alla voce e alle tastiere - di Summer ’68, splendido cameo dal lato B del «disco con la mucca». Ecco, il pezzo forte della serata è proprio la suite che diede il nome all’album del 1970, Atom Heart Mother: sentirla dal vivo è evento rarissimo. E’ una composizione che dopo 54 anni mantiene intatto il fascino, sia nei passaggi più lirici sottolineati da organo Hammond e violoncello sia nelle parti più «avanguardiste», sperimentali e dissonanti, restituendoci una pagina di musica da ascoltare prima che da guardare, secondo un canone più classico che rockeggiante. E questo ci riporta al dilemma iniziale, che forse non abbiamo risolto, ma il rock sembra più vivo che mai. E i Pink Floyd pure. Insomma, leggenda.
Aldo Tagliaferro
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