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Quarant'anni fa

Susy e Pier, i fidanzati uccisi nella strage di Natale

Susy e Pier, i fidanzati uccisi nella strage di Natale

23 Dicembre 2024, 03:01

Quarant’anni esatti fa, il 23 dicembre 1984, alle 19.08 il buio della Galleria ferroviaria dell’Appenino - che collega Toscana ed Emilia-Romagna - fu squarciato da un lampo. Un ordigno collocato in due borse sportive nella carrozza nove del treno Rapido 904, partito da Napoli e diretto a Bologna, era appena esploso, dilaniando il vagone. Il bilancio finale fu di 17 morti e più di 260 feriti: una strage, immediatamente denominata «la strage di Natale» che, come appurerà l’iter processuale, venne perpetrata - scrive il giornalista Nicola Lofoco - da «un’organizzazione articolata su due livelli: l’uno camorristico-mafioso, l’altro camorristico-eversivo di estrema destra».

La Gazzetta di Parma seguì fin da subito la drammatica notizia (uscì con un’edizione straordinaria il giorno di Natale): in quella strage persero la vita due giovani fidanzati parmigiani. Altri si salvarono per un soffio. Si salvò Anna Cavallotti, 21 anni, al secondo anno di Geologia. Salita sul treno a Firenze, aveva preso posto nella carrozza di fianco a quella dell’ordigno. Al momento dell’esplosione stava infatti uscendo dalla toilette e la porta le fece da scudo. Si salvò Cosimo Martini, 17 anni, che frequentava la quarta all’istituto San Benedetto. Lasciata Santa Maria Novella, si era seduto in prima classe e stava leggendo un giornale quando, ricordò, sentì «un boato tremendo». Pensò che fosse saltata una bombola del vagone ristorante, poi sentì urlare quella parola che non avrebbe più dimenticato: «Una bomba!». Grida, fumo denso, calca: in quegli attimi tremendi, Cosimo riuscì a mantenere la lucidità, aiutando anche una giovane madre a scendere dal vagone. Poi l’attesa estenuante dei soccorsi, la sosta insieme agli altri superstiti alla stazione di San Benedetto Val di Sambro e infine il trasferimento a Bologna. Vennero distribuiti dei gettoni telefonici, ma le cabine erano poche e prese d’assalto: solo all’una e trenta il ragazzo riuscì ad avvertire i genitori terrorizzati.

A casa, quella notte, invece non chiamarono, non poterono chiamare Susanna Cavalli e Pierfrancesco Leoni, una giovane coppia, 22 anni lei e 23 lui, che stava rientrando a Parma da Roma.

Le loro fotografie - che compaiono sulla prima pagina della Gazzetta del 27 dicembre -, nonostante siano soltanto delle fototessere, rimangono impresse. Lui, maglione scuro a collo alto, guarda serio nell’obiettivo. Lei è di tre quarti, i lunghi capelli castani raccolti in una coda incorniciano il viso delicato.

Pierfrancesco (ma tutti lo chiamano Pier) frequenta il quarto anno di Giurisprudenza e, dato che i genitori vivono a Kitwe, nello Zambia, dove dirigono una miniera di rame, si divide tra la casa degli zii materni in via Colorno e l’istituto San Benedetto dove è alloggiato in una camera e in cambio, dà una mano nella gestione dei ragazzi in collegio. A detta di tutti è un animatore meticoloso e molto creativo. Susanna - detta Susy - invece abita con i genitori a Gaiano di Collecchio e frequenta il terzo anno di Magistero. È intelligente e riflessiva: da quando ha conosciuto Pierfrancesco, sette mesi prima, è diventata ancora più sicura di sé, più spensierata e ironica. I suoi genitori non hanno ancora incontrato il ragazzo, ma sanno che è una persona per bene, con la testa sulle spalle e in più si fidano ciecamente delle scelte della figlia. I due, infatti, entrambi credenti (Pier fa parte di Comunione e Liberazione, Susanna ne è diventata una simpatizzante) condividono gli stessi valori, gli stessi interessi culturali (nei weekend amano visitare le città d’arte). Poi, appena prima di Natale, ecco la possibilità di quel viaggio a Roma con una comitiva reggiana; in realtà, più che un viaggio, si tratta di un pellegrinaggio. Pier desidera infatti pregare per una grazia ricevuta: due settimane prima ha avuto un brutto incidente con la sua Mini, ma tutto sommato gli è andata bene (si è rotto un solo un braccio che ha ancora ingessato). Susy è stata ben felice di accompagnarlo. Partiti il 21 dicembre, trascorrono tre giorni spensierati; devono rientrare la domenica, ma, nel primo pomeriggio, il gruppo arriva tardi in stazione e vede sfilare il direttissimo che aveva pianificato di prendere. «Non preoccuparti - dice Susanna nell’ultima chiamata alla madre - non tarderemo troppo, ci sono altri treni». È così: un rapido, numero 904, è in arrivo con il destino da Napoli. Salgono in seconda classe, carrozza nove.

In serata familiari e amici di entrambi sono in allarme. I genitori di Susanna, a Gaiano, seguono con apprensione i notiziari: erano sul treno dove è avvenuta l’esplosione? Lo zio della ragazza, un amico e il medico di famiglia, vanno in stazione a Parma e aspettano invano tutti i treni fino alla mezzanotte. Poi, mentre l’angoscia sale, raggiungono l’ospedale di Bologna. «Ci hanno consegnato l’elenco delle vittime e dei feriti - dirà il medico alla Gazzetta - ma Susanna non figurava. Per un attimo ci si è aperto il cuore. Poi però, un dottore, con molto garbo, ci ha accompagnato in una stanza dove erano allineate delle bare, ancora aperte. Una scena che non scorderò mai: Susanna aveva il corpo intatto. Solo un segno di bruciatura su un lato della testa. Un pantalone era tagliato, uno stivale quasi tranciato. Ci hanno consegnato l’orologio da polso e la sua macchina fotografica». A riconoscere Pierfrancesco sono invece lo zio e il cugino: «Non riuscivamo a capacitarci: presentava solo una leggera scottatura alla fronte e ad un orecchio. I vestiti erano sporchi per il fumo, ma ancora intatti, così come il gesso al braccio. Ci hanno dato il suo orologio, la catenina e una moneta da duecento lire». Il 28 dicembre vengono celebrati i funerali a Gaiano. La chiesa è gremita, molti seguono il rito nella piazza antistante, sotto la neve mista a pioggia. I due feretri, portati a braccia, vengono poi tumulati nel cimitero locale.

Un pomeriggio di dicembre di quarant’anni dopo, il camposanto, lontano dal traffico della strada per Fornovo, è appartato e silenzioso. Intorno la campagna che, inquadrata dal profilo dolce delle colline, assiste allo scorrere del Taro che si intuisce laggiù, oltre la vecchia chiesa di Oppiano e la boscaglia della riva. Entrando, sulla destra, si nota immediatamente il sepolcro che venne costruito qualche anno dopo la tragedia. È maestoso, solenne, quasi fuori scala per uno spazio così raccolto: dice di una ferita profonda, terribile, che segna una piccola comunità. Sotto un cubo in metallo e una croce greca, le due bare, rette da sostegni che ricordano delle traversine, inquadrano una bella foto di coppia tra luci perpetue. Don Francesco Conti, parroco di Gaiano, aspetta lì accanto: «Nonostante sia passato quasi mezzo secolo - racconta - e le dinamiche di quel periodo appaiono forse lontane, la messa di ricordo che si celebra tutti gli anni, l’ultima domenica prima di Natale, è ancora oggi un bel momento di relazione. Alla fine della celebrazione, veniamo qui, insieme, a fare memoria. Anche l’amministrazione è da sempre presente e molto attenta».

Si alza il vento. Difficile, sostando qui, non pensare ai regali che Pier doveva fare quel Natale e che vennero ritrovati incartati e disposti con ordine sul suo letto, dai salesiani; difficile non pensare al concorso che Susy stava preparando per diventare operatrice di scuola materna; a quell'ordigno creato con lo stesso tipo di esplosivo che sarà utilizzato in via d’Amelio, al telecomando che azionò a distanza - per la prima volta in Italia - l’esplosione, prefigurazione di Capaci. Difficile non pensare a come la storia possa irrompere nelle esistenze, stravolgendole, segnando per sempre anche le pareti di un piccolo cimitero di campagna. Ma, oltre la fatica del dolore e della rabbia, oltre l’umanissimo sforzo di cercare un senso, questi quarant’anni si fanno anche invito: a ripercorrere prima e custodire poi i gesti, i desideri e le parole dei due ragazzi nella fotografia sul muro, lì di fronte. Tra le due tombe corre uno stretto camminamento, gli aloni d’acqua dei vasi di fiori cerchiano alcune parole scolpite; provengono da una lettera di Pier a Susy: «Quel che era l’alba di un sorriso si perde nell’ultimo tramonto, ma la mia vita continua, la mia, la sua, la nostra».

Filippo Marazzini

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