Compleanno
Prendiamo, per esempio, tre nomi: Luciano Pavarotti, Renata Tebaldi, Carlo Bergonzi. Lui ce li ha. Nel senso che lo hanno visto giovane di buone speranze, ne hanno capito il potenziale, gli hanno svelato segreti del mestiere. Lui è il basso Michele Pertusi, divo della porta accanto: pubblico e critica lo amano per il talento; i colleghi ne parlano bene (fatto più unico che raro in certi ambienti) per la generosità e quella dose di ironia - barzellettiere nato e imitatore “in pectore” - che sa stemperare le tensioni.
Domenica, vigilia del patrono della sua e nostra Parma, festeggia un “signor compleanno” e vola a “quota 101”: 41 anni di carriera mondiale (ha vinto anche un Grammy Award) e 60 anagrafici. La pensione? Può aspettare, non a caso studia ogni santo giorno («Specie la tecnica, a volte bastano anche venti minuti ben fatti»), spesso con la maestra di sempre Ciako Tanaka, anima d'oriente fiorita alle latitudini del Cigno.
Anzi esprime un preciso desiderio al termine di questa chiacchierata, in cui fa anche capolino la nostalgia per chi non c'è più e per quella casa natale nel cuore dell'Oltretorrente, «al numero 10 di via Flavio Gioia, dove ho vissuto per i primi 5 anni. Poi nel 1970 ci siamo trasferiti in via Ravà che all'epoca pareva campagna...», dice.
Se ripensa al suo esordio, nel 1984, giovane Monterone nel «Rigoletto» diretto dal maestro Bartoletti in piazza a Pistoia, come rivede quel ragazzo là, di neanche vent'anni?
«Diciannove ne avevo. Con nostalgia, lo rivedo con nostalgia, c'erano le speranze della gioventù, la voglia di spaccare il mondo. A volte si usa questa espressione quando si parla di giovani che vogliono intraprendere una carriera. Io ero così. Avevo l'entusiasmo di andare a lezione, l'entusiasmo di andare alle prove, l'entusiasmo di cantare, ricordo i primi concerti da solista, fin dal 1982, mentre già cantavo con la Corale Verdi e il Coro del Teatro Regio. Quando sei giovane sembra tutto più facile... anche se la maturità ti regala altre cose».
A lei ha regalato una voce verdiana dopo essere stato una grande voce rossiniana.
«Probabilmente le cose a volte nella vita vanno così perché devono andare così. Cioè non è che ho fatto la scelta di diventare voce rossiniana, mi sono trovato in un periodo della mia vita con determinate qualità che si sposavano con il repertorio di Rossini di cui c'era grande richiesta, non solo al Rof di Pesaro ma in tutto il mondo. Serviva una nuova generazione di voci rossiniane che subentrasse alla generazione precedente di grandi voci, come il tenore Chris Merritt o il basso Sam Ramey. È stato un po' il repertorio rossiniano che ha scelto me ... Per dire, io e Carlo Colombara abbiamo iniziato insieme, lui ha avuto l'opportunità di fare un percorso verdiano e io rossiniano, forse poteva succedere il contrario...».
I grandi ruoli verdiani sono arrivati dopo i quarant'anni.
«Sì, anche se in realtà ho sempre mantenuto in repertorio qualche titolo verdiano, “Luisa Miller” e i “Lombardi”. Certo i grandi ruoli sono venuti dopo: ho debuttato “Simon Boccanegra” con Domingo a Vienna a 48 anni; Filippo II del “Don Carlo” l'ho debuttato a 51; per Zaccaria di “Nabucco”, a parte qualche volta prima in forma di concerto, avevo 43 anni».
Adesso che compie 60 anni, può dirlo: qual è il personaggio che ha amato di più e quello che proprio ha odiato?
«Dobbiamo tralasciare un attimo Verdi perché ho amato alla follia, anche se l'ho fatto solo una volta, Don Quichotte di Massenet, un personaggio che mi ha folgorato per la grande poesia, la follia sublime. Se parliamo di Verdi, sono sempre molto affezionato a Silva di “Ernani” e Filippo II del “Don Carlo”, probabilmente il personaggio più completo che Verdi abbia scritto, in cui si ritrovano l'infelicità di un amore coniugale, l'infelicità di un rapporto difficile col figlio, i problemi della della politica e i problemi della religione... Un personaggio che dà mille spunti, ogni volta. Quello odiato? Marcel degli Ugonotti, “Les Huguenots”, di Giacomo Meyerbeer: una parte che vocalmente non è assolutamente per me, l'ho fatto solo una volta a Ginevra, poco prima che il Covid facesse chiudere i teatri, tra mille difficoltà anche con il direttore e il regista».
Nonostante le difficoltà, l'avrà fatto bene, perché è un razionale: di recente, ci ha detto «io sono fin troppo razionale»...
«Infatti. Quando si arriva a 60 anni queste cose si possono un pochino sviscerare. Gli artisti, in generale, non solo i cantanti, hanno due parti, una razionale e una emozionale. Qualche volta bisogna che la parte razionale prevalga perché c'è la necessità di portare a casa la pelle, nel senso di portare a termine il progetto. Quindi sono diventato anche più razionale con il tempo. Superstizioso poi non lo sono mai stato: il gatto nero o il colore viola mi fanno sorridere, anche se nel mio ambiente so che non è sempre così».
Torniamo a quando studiava, forse faceva il Conservatorio, ha incontrato lì sua moglie Stefania. Chi dei due ha gettato l'amo?
«Io, io. Come dicevo, questa è la gioventù. L'ho vista, mi è piaciuta, eravamo ragazzini. Io 15 anni, lei 14, eravamo nella stessa classe di canto del maestro Uberti. Ci siamo fidanzati più avanti. Racconto una cosa curiosa: ci siamo fidanzati a cavallo tra miei due debutti, era il primo di novembre e da allora è ancora una ricorrenza che ricordiamo ogni anno, festeggiamo tra virgolette perché poi sono giornate un po' particolari. Ci siamo sposati l'11 agosto 1991 e abbiamo avuto tre figli che adesso sono uomini: Massimiliano, il più grande, è pasticcere da Bombè; Alessandro vive da tempo a Milano e lavora nel campo del design come la sua compagna, una ragazza spagnola; il più piccolo Roberto sta concludendo la laurea quinquennale in Chimica a Parma. Ma se parliamo di famiglia, non posso non ricordare i miei genitori, papà Aldo e mamma Tina, e tutti i miei nonni che tanto merito hanno avuto perché mi appassionarsi all'opera».
Li pensa spesso? Il ricordo le dà conforto?
«Sì, ci sono i ricordi piacevoli che fanno stare bene, però il rimpianto è molto grande. Il rimpianto che i miei nonni non abbiano potuto vedere la mia carriera, mi spiace soprattutto per mio nonno Armando, ci avrebbe tenuto molto».
Nel 1995 ha vinto il premio Abbiati della critica per le interpretazioni rossiniane a Pesaro e Bologna; nel 2005, un Grammy Award, l'Oscar della musica, per il Falstaff discografico: quando si è detto: «Michele, ce l'hai fatta!». Se lo ha detto.
«No, mai. Cioè è chiaro che sono arrivato a un bel punto, non lo nego, ma non mi sento mai soddisfatto, il nostro mestiere è sempre in divenire».
Arrigo Pola, Carlo Bergonzi, Rodolfo Celletti: tre suoi maestri.
«Parto da Celletti: in quel periodo aveva allievi importanti; era un mondo particolare, non era un insegnante di canto vero e proprio ma era uno storico del canto, quindi le sue lezioni aprivano mondi sui tanti argomenti che il canto suggerisce. Con Bergonzi ho studiato, sia in Accademia a Busseto per la preparazione della “Luisa Miller”, poi ho fatto un'altra appendice di Accademia per preparare i “Lombardi” che andavamo a cantare con lui a Lisbona. Ho preparato con lui privatamente “Ernani”, il ruolo del mio debutto in palcoscenico. Anche lui è stato una bella guida, mi ha permesso di capire certi meccanismi dalla respirazione, per cantare senza far fatica o... almeno cercando di nascondere la fatica (ride, ndr). Arrigo Pola fu maestro anche di Pavarotti e di una schiera di cantanti che hanno fatto carriera: senza svolazzi, con i piedi molto per terra, insegnava il mestiere. Lo ricordo con affetto».
Ha avuto l'amicizia di Renata Tebaldi, Giampiero Rubiconi, forse anche Peppino Negri.
«Veramente. In particolare sono orgoglioso di aver avuto l'amicizia di Giampiero: aveva un'idea, ha fatto bene come dirigente di teatro e, prima ancora, come capo della commissione teatrale quando Angela Spocci dirigeva il teatro. Secondo me in quegli anni si sono visti spettacoli straordinari a Parma, gareggiavano con La Scala ed è giusto dirlo. Recentemente sono usciti dei dischi, grazie ad Azzali editori, e possiamo riascoltare il “Don Carlo” con Bruson e la Dimitrova - ricordo di aver visto tutte le recite di quel “Don Carlo” -, il “Macbeth” ancora con Bruson, e il “Nabucco” che abbiamo fatto al Ducale quando il Regio era chiuso per il terremoto - dico “abbiamo” perché io ero nel coro-, direttore Romano Gandolfi. Erano serate magiche».
Torniamo al compleanno: come festeggerà domenica e cosa le possiamo augurare?
«Non so come festeggerò, non so se mia moglie, i miei figli e i miei amici mi vogliono fare una sorpresa. Questo non lo so e non lo voglio sapere. Quindi domenica sarò a casa... aspettiamo quello che viene. Augurare? La salute è banale, si augura d'ufficio. Siccome sto bene vocalmente, mentre molti miei colleghi sessantenni hanno già finito la carriera da tempo, spero che questa mia ultima fase di grande maturità nel canto possa durare dieci anni, che so forse debuttare un ruolo, forse due, forse riprendere un Don Quichotte... Poi a settanta vediamo...».
Mara Pedrabissi
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