Piloti parmigiani in gara al Rally Dakar
Di che materia sono fatti i sogni? I poeti hanno provato a spiegarlo per secoli. Ma se lo chiedi a quelli che in questi giorni stanno volando tra le dune del Rub' al-Khali, il grande nulla che occupa tre quarti dell'Arabia Saudita, probabilmente vi diranno che sono fatti di sabbia.
Una sabbia impalpabile e bastarda che ti entra dentro: «tanto che oggi la odi e la maledici ma poi, appena tornato a casa, non vedrai l'ora di essere di nuovo a scalare le marce tra le dune».
Come ogni anno, con l'inizio di gennaio, riparte il rito, che poi è un mito, del Rally Dakar: e come ormai consuetudine, c'è anche un po' di Parma nella corsa più dura al mondo.
«A quante edizioni ho partecipato? Mah, il numero preciso non lo ricordo – taglia corto Stefano Calzi, meccanico-pilota che vive con il corpo a Berceto e il cuore nel Sahara e che per l'ennesima volta torna nel deserto al volante del suo camion. Ha iniziato circa 20 anni fa: il tempo è passato ma la passione è ancora quella.
«Sono qui sia come pilota sia come team manager: la mia Motortecnica ha cinque equipaggi schierati tra la Classic e la gara principale», spiega ritagliandosi, con modestia finto burbera, un ruolo da comprimario. - Le classifiche non le guardo: e con il mio camion mi metto un po' al servizio degli altri». Sarà vero: ma chi è pilota una volta lo è per sempre. Tanto che alla fine scappa un mezzo sorriso mentre ammette: «però nelle prime tappe non è andata male: ho fatto un primo e un secondo posto».
Traguardi incredibili per quella sfida inventata da un visionario negli anni '80 che immaginava una gara tra uomini con un motore. Dove però l'elemento umano conta di più di quello meccanico. Dal allora il rally ha cambiato nome, percorso, persino continente ma rimane quella massacrante esperienza dove, sempre parole del suo creatore, «si lascia in valigia in modo occidentale di pensare. Qui si viene per soffrire». E di sofferenza, purtroppo, pure di morte, nei decenni, se n'è vista tanta anche perché edizione dopo edizione, la gara diventa, ammesso che sia possibile, sempre più dura e selettiva. Anche se certe sfide sfacciate al destino delle prime edizioni sembrano, per fortuna, archiviate.
«In caso di pericolo, se c'è una emergenza, nel giro di 12 minuti un elicottero è in grado di raggiungerci grazie alle nuove tecnologie, ai satelliti, ovunque noi siamo». Pare incredibile: ancora in tanti ricordano la storia di Mark Thatcher, figlio dell'allora granitica primo ministro inglese, che il 9 gennaio del 1982 si perse nel deserto. Fu ritrovato solo dopo cinque giorni scomodando mezzo esercito algerino. «Ora ci sono altre comodità, altri servizi: si dorme nei motorhome, si mangia al tavolo nelle tende, ci sono strutture mediche al seguito», prosegue Calzi che corre con Umberto Fiori e Gianluca Ianni.
Ma allo stesso tempo, in una sola giornata storta, più di venti equipaggi sono costretti a ritirarsi vinti da sassi dispettosi, motori portati oltre ogni limite sensato e ogni tipo di incidenti mentre si corrono tappe da 1500 km in tre giorni. In una cosa il deserto è sempre lo stesso: non perdona.
«E' così – conferma Guido Dalla Rosa Prati che torna per la seconda volta alla Dakar. Lui che per tre volte è stato campione italiano di volo a vela, che ha rappresentato l'Italia ai mondiali di chi sembra galleggiare tra le nuvole, s'è ammalato della febbre delle sabbie E dopo il contagio di un paio d'anni fa è di nuovo al via. - Ci sono tappe di centinaia di chilometri e quando arrivi al bivacco sei distrutto. Sei coperto di sabbia e ti infili nella tenda mentre nel pomeriggio arriva un vento gelido che porta la polvere che ti avvolge sempre e comunque».
Una specie di incubo, quindi? Per nulla, «è invece una esperienza così grande che sembra una fantasia», scandisce mentre spiega che, per lui, questa non è solo una gara. «Il mio navigatore in questa edizione è mia figlia Maria Vittoria: lei ha 25 anni, io 64 e ci troviamo legati come non mai a sfidare le dune. La magia di una esperienza come questa da vivere insieme non è facile da spiegare».
Come nulla è banale quando si parla del rally per eccellenza. Qui le macchine si dominano più con l'istinto che con il volante, al posto dell'asfalto ci sono pietraie e greti di torrenti in secca da millenni e il navigatore, nel nulla infinito, conta tanto quanto il pilota. «Per me è veramente una grande emozione – spiega Vittoria Dalla Rosa Prati. - vivere la corsa ma anche tutto quello che c'è intorno: la preparazione, il bivacco, il caldo, il freddo. È un'avventura completa. E sono felice di sfidare me stessa insieme a mio padre: se lui mi avesse proposto di partire per la Luna lo avrei seguito senza un dubbio».
Come prima di lei, e di loro, hanno fatto migliaia di sognatori appassionati. Tra di loro gente che ha tagliato per prima il traguardo sulle piste di mezzo mondo ma che poi, una volta arrivati sotto le stelle del deserto, ha avuto l'illuminazione.
«Amo la Dakar perché ti fa percepire come sei piccolo nel mondo – ha detto un campione che ha vinto un mondiale rally e una legione di altre gare. - Vedi quei granelli di sabbia nel deserto? Siamo piccoli così». E allora torniamo all'inizio: la materia dei sogni è forse la sabbia. E quindi si vive solo per andare a scoprire cosa c'è dietro la prossima duna.
Luca Pelagatti
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