Giustizia
«L’abuso d’ufficio è il reato commesso dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle loro funzioni, procurano intenzionalmente a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arrecano ad altri un danno ingiusto». Tutto corretto fuorché il tempo del primo verbo, rigorosamente da aggiornare al passato. Dura (ma si potrebbe dire il contrario, in questo caso) lex sed lex: qui è la 114/2024 a far fede.
Dall'entrata in vigore del decreto Nordio, l'abuso d'ufficio non è più, ma era. Fine dello spauracchio dell'articolo 323, specie per i pubblici amministratori per il quale si rischiava la reclusione da uno a quattro anni (con pena aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno avessero un carattere di rilevante gravità). Fine del rischio dell'avviso di garanzia, che per chi ha un incarico pubblico è come una condanna.
Si potrebbe dire che l'articolo 323 del Codice penale si sia abrogato da solo, evaporato nell'inconsistenza dei propri numeri. In media portava a quattromila iscrizioni all’anno nel registro degli indagati: di queste, ad esempio, nel 2021 solo 18 si sono concluse con una condanna.
Statistiche che valgono anche per il nostro panorama giudiziario. A Parma, delle 65 iscrizioni nel registro degli indagati per il (fu) 323 dal 2019 al 2024 solo dieci sono sopravvissute all'archiviazione. Per concludersi con solo quattro condanne. E i quattro fascicoli pendenti? «Ho mandato una direttiva ai colleghi - spiega il procuratore Alfonso D'Avino - di verificare se possono essere archiviati con la formula “perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato”». Eventualità che può essere evitata solo se al loro interno i fascicoli contengano altre ipotesi di reato.
Dell'abrogazione della 323 si è occupata anche la Corte costituzionale, perché in possibile contrasto con la convenzione (di Merida) delle Nazioni unite contro la corruzione, del 2003. «Il decreto Nordio - spiega D'Avino - per alcuni Tribunali costituirebbe una sorta di regresso rispetto ad obblighi assunti, violando l’articolo 117 della Costituzione». È stato il Tribunale di Reggio Emilia, il 7 ottobre scorso, a osservare che la convenzione di Merida alcune condotte impone di criminalizzarle, mentre per altre si limita a consigliare di farlo.
Solo le prime debbono essere considerate «imposte» agli Stati membri, hanno sostenuto i giudici d'Oltrenza. Dello stesso avviso la Procura di Parma che, in un recente processo per abuso d’ufficio a carico di un dirigente comunale, ha chiesto l'assoluzione dell'imputato, mentre la parte civile sollevava la questione della legittimità costituzionale. Il Tribunale ha fatto propria la tesi di vicolo San Marcellino, assolvendo l’imputato «perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato».
Una formula che ha grandi probabilità di accompagnare l'archiviazione dei fascicoli in attesa di passare all'«ultimo esame», quello che, appunto, dovrà stabilire se contengano altri ipotetici delitti. Lontani gli anni '90, quando qualunque presunta violazione da parte dei pubblici ufficiali faceva partire l'indagine. «All'epoca - ricorda D'Avino - l'abuso d'ufficio era punito con la pena fino a 5 anni. Quindi, si potevano fare intercettazioni, emettere misure cautelari, e magari investigare su fenomeni di corruzione o concussione». Tangentopoli, senza il 323, avrebbe avuto un altro skyline.
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