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Carnevale è ormai alle porte. E’ il trionfo del fritto dolce, ossia di quegli umili dolcetti casalinghi di tradizione antica come: «ciac’ri» (chiacchiere), «bozìi» (bugie), frittini di mela, «canif» (frittini di patata), tortelloni e sgonfietti con ripieni vari che le nostre nonne preparavano mettendo in campo tutte le loro doti muliebri in fatto di cucina. Ma, senza attendere Carnevale, la cucina popolare parmigiana prevede un fritto non dolce e senza età gradito in ogni stagione.
E’ un cibo antichissimo, addirittura alcuni lo fanno derivare dalla Persia. Si tratta delle care vecchie polpette, in «pramzàn polpètti», che in tutto il mondo sono fatte nei più svariati modi. Però le polpette parmigiane, quelle della nostra tradizione, hanno qualcosa di molto diverso che, in altre parti della terra, nemmeno lo immaginano.
Si tratta delle «polpètti äd cavàl pisst» che hanno sempre impreziosito gli spartani menù delle antiche osterie parmigiane dove si poteva gustare anche un bel piatto «äd mnestrón» ora quasi impossibile trovare nelle globalizzate «carte» dei vari locali.
Sul bancone delle vecchie osterie non potevano mai mancare un «pjat äd polpètti», uno «äd marluss fritt» e un «cestén d'óv dur». Questi erano gli «ape» di ieri che, se proposti anche oggi al posto delle solite portate moderne, potrebbero riscuotere un inaspettato successo anche da parte dei giovani che si riapproprierebbero delle tradizioni e dei gusti dei loro avi.
Anche se, a dire il vero, nei locali moderni è già da qualche anno che fa bella mostra il cavallo pesto condito in varie versioni. Nella nostra città esistevano, addirittura, delle «basiliche» di polpette di cavallo pesto create da altrettanti maestri che le preparavano con ricette pressappoco simili o con qualche leggera variante.
Innanzitutto un buon numero di «master chef» che le facevano non provenivano né da alcuna scuola di cucina o accademia, ma indossavano «al scosäl» quando entravano nel loro circolo dopo avere tolto la tuta da operaio. Innanzitutto, per fare le polpette di cavallo, questi autarchici «chef» avevano il loro «cavalär» di fiducia: l’Olga in «Giära», Bruno Schivazappa in piazzale Matteotti, la Lina in «Bórog dal Gèss», la Rosetta e Marco Fedi in via Farnese e tanti altri. E poi ci mettevano del loro pescando nelle vecchie ricette delle nonne, delle mamme e delle zie, ovviamente tutte «pramzàni dal sas».
La polpetta nelle tavole di ieri ha sempre esercitato un grande fascino e, se anche comparata ai «grandi cibi» , non sfigurava mai. I «grandi cibi» venivano gustati e centellinati, il «polpètti» venivano «fumate» in pochi minuti.
Un po' come l’umilissimo «pjén ädla domenica» che dominava sugli altri bolliti poiché graditissimo ai giovani e agli anziani per via della sua morbidezza adatta ad una masticazione con dentiere «ballerine». Così dicasi per la mortadella e la cicciolata (per i «pramzàn véc' cicoläda») in rapporto ad insaccati più blasonati di queste due «cenerentole dei salumi».
Quando le cose andavano male e in tavola si faceva fatica a portare qualcosa, le «rezdore» si industriavano a cucinare polpette molto casalinghe magari utilizzando la «pastasùtta vansa» che veniva pazientemente sminuzzata e poi messa insieme con un uovo il tutto a forma di pallottola, poi passata nel pane grattugiato e fatta friggere «in-ta-l dolégh». Ne uscivano una sorta di crocchette per niente male che potevano benissimo competere con quelle di riso e di patate. E il tutto poteva accompagnarsi, se le polpette erano fritte, a un’insalata di «grùggn», se invece erano cucinate con il sugo, ad una soffice purea «äd pòmm da téra».
I grandi «polpettieri» parmigiani fanno ormai parte del capitolo romantico della parmigianità più vera e purtroppo andata. Vediamo di fare una carrellata, tra i «grandi sacerdoti» delle polpette di ieri. Iniziamo il nostro onirico tour dall’osteria di Lino Costa in borgo Onorato. Lino fu un vero portento a fare i panini che dispensava ai numerosi studenti che frequentavano il locale. Panini, davvero speciali, che non abbandonarono mai la tradizione parmigiana nonostante qualche rivisitazione che, però, «la podäva parlär al djalètt pramzàn». Famosi anche i dopo teatro, da Lino, con artisti, cantanti, musicisti, intellettuali e loggionisti in quanto, Lino, era pure lui un melomane verdiano. E, tra i loggionisti, non potevano mancare «Gigètt» Mistrali, Bettino Ferroni «al Beto»: ideologo, poeta, meccanico di bici, ciclo amatore, tenore, filosofo e maestro di vita. Ed ancora: Fochi, Orlandini e Claudio Mendogni che ricorda ancora i pantagruelici piatti di salume che venivano portati in tavola accompagnati da «sigòlli e pévron mach» e, ovviamente da «polpètti äd cavàl pìsst».
Se era di luna buona, Lino, rinomato «polpettiere», si metteva ai fornelli sorprendendo i commensali con le «orchidee» (testicoli) di toro impanate e fritte, «pè 'd gozén», «anolén» e la parmigianissima «vécia 'd cavàl» con al «cavàl pìsst ädla Lina 'd bórgh dal Gèss» in seguito rimpiazzata degnamente dai mitici Angelo e Gianni i quali, per mantenere la tradizione, hanno battezzato i vari pezzi di carne esposti nel banco-frigo, con il nome in «djalètt pramzàn». Da Lino si poteva pure incontrare il simpaticissimo Giuseppe Chiari, l'ultimo «casonér äd Pärma», fedelissimo frequentatore anche del «Cavallo Bianco» di strada Nuova e del «Giardinetto» di borgo Santa Chiara, altri due locali dove le polpette non mancavano mai.
Polpette squisite anche dalla «Campanära in bórogh Paja». Ed a questo punto non si può non ricordare la dolcissima figura dell’ostessa, la «Nisén», una donnina esile, ma dallo spirito forte come una quercia, lavoratrice instancabile la quale, dietro il banco del suo locale, dispensava: vino, uova sode, «marlùss fritt», trippa con quello stile popolano, tipicamente parmigiano, ma comunque sempre infarcito di grande dignità e signorilità d'animo.
E come non ricordare con affetto l'osteria del «Sórd», in borgo Sorgo, dove l'oste, Bruno Lucchini, con un «scosäl nìgor cme 'l carbón» si aggirava tra i tavoli del locale, affrescato dal pittore Madoi, distribuendo agli avventori le sue polpette di cavallo che estraeva dalle tasche del grembiule mentre negli «scudlén» mesceva un vino duro e forte che gli avventori avevano soprannominato «copartón».
Altro avamposto dove si gustavano polpette sempre «äd cavàl pìsst» era il circolo Aquila Longhi in vicolo Santa Maria quando dietro ai fornelli si misuravano la Luciana e Corradino, autore di polpette fatte con un impasto speciale dove non mancava una garbata nota d’aglio. Il piatto «forte» del circolo Aquila Gigole di piazzale Inzani era cucinato dall’indimenticato Enrico Degli Andrei con le sue polpette di cavallo.
La ricetta: «cavàl pìsst», patata, uovo, parmigiano stravecchio, pane grattugiato, sale, pepe e... il resto che però Enrico non volle mai svelare al cronista. Altro «sancta sanctorum» delle polpette parmigiane, concepite alla montanara, fu la trattoria «La bella Villana» di vicolo Politi che poi venne ribattezzata «Del Tribunale», non solo perché ubicata vicino alla Corte d’ Appello, ma per il fatto che era frequentata da magistrati ed avvocati.
Negli anni sessanta fu gestita per un quarantennio da Bice Manara e dal marito Mauro Zucchellini, gran brav’uomo, onesto e gentile, montanaro di Lalatta del Cardinale (Palanzano). Ai fornelli, la Bice e la mamma Alberta proponevano all’affezionata clientela i piatti della tradizione parmigiana e montanara: gli inarrivabili tortelli di patata ed un minestrone di verdura, sia estivo che invernale, che profumava di cose buone e care al cuore.
Lorenzo Sartorio
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