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Intervista

Lino Guanciale dopo i successi del «Conte di Montecristo» scende negli abissi dell'essere umano: «Interpreto un personaggio luciferino»

Lino Guanciale dopo i successi del «Conte di Montecristo» scende negli abissi dell'essere umano: «Interpreto un personaggio luciferino»

di Mara Pedrabissi

08 Febbraio 2025, 03:01

«L'abisso abita tutte e tutti noi», dice Lino Guanciale, oramai attore iconico della sua generazione, “indossando” una nuova sfida che lo cala nel “nero” dell'animo umano. Il titolo la dice lunga: «L’uomo più crudele del mondo». Regia di Davide Sacco, che ne è anche è autore; in scena domani, alle 21, al Teatro Magnani di Fidenza.

«Un'indagine sulla crudeltà nell'essere umano, anche nella classica brava persona», ha detto il regista. Fino a quali abissi “neri” ci condurrete? E cosa l'ha intrigata di questo testo?

«Quello che mi ha intrigato è detto, in maniera sintetica, da Davide Sacco:  l'abisso non abita soltanto chi siamo abituati, un po' comodamente, a considerare dei mostri, cioè delle eccezioni quasi fuori dal consorzio umano. L'abisso abita tutte e tutti noi e i mostri di fatto non esistono, la mostruosità è un carico che in qualche modo attraversa ognuno e ognuna, altrimenti non sapremo neanche riconoscerla. Penso che spostarla fuori da noi sia un grande alibi in realtà:  è un modo per dimenticare, per non farsi carico della responsabilità che certe cose poi non succedano più.  Invece, considerare gli abissi come prerogativa di tutte e tutti noi credo sia l'unico modo per riuscire a comprendere e capire anche come fare in modo che determinate cose poi non si ripetano, o prevenirne gli effetti e le conseguenze».

Su questo metaforico ring, con lei (anzi contro di lei) c'è  Francesco Montanari, il “Libanese” della serie Romanzo Criminale. È la prima volta che lavorate insieme? Quali dinamiche si generano?

«Francesco è un amico. Ci siamo conosciuti proprio per uno spettacolo teatrale una quindicina di anni fa. Uno spettacolo su “Fontamara” di Ignazio Silone che Michele Placido volle mettere in scena in primis a beneficio dei borghi terremotati all'epoca del sisma aquilano. L'occasione di condividere ancora il palco con lui, si è ripresentata tre anni fa quando mi ha fatto leggere questo testo di Davide Sacco, con il quale dirige il teatro Manini di Narni, insieme anche a Ilaria Ceci. Leggendo il testo  sono rimasto subito conquistato tanto dai nuclei tematici quanto dal congegno drammaturgico. È un meraviglioso meccanismo, quello costruito da Davide, che trasporta  in un altrove in cui ogni spettatore e spettatrice può rispecchiare in qualche modo il proprio rapporto con il “male” in generale e anche la simpatia che purtroppo un personaggio luciferino come Paolo Verez, interpretato da me, può generare in tutte e tutti noi. È un climax continuo, con un fortissimo colpo di scena nelle ultime sette parole. Le dinamiche che si creano con Francesco sono quelle che si possono creare soltanto con qualcuno con cui hai una condivisione perfetta in scena».

Fuori dal teatro, è reduce dal successo del «Conte di Montecristo». Cosa ha fatto centro di questa coproduzione internazionale?

«Il Conte di Montecristo è un classico che per il grande tema che affronta del rapporto fra vendetta e giustizia, per l'affresco che restituisce di un'epoca intera, un'epoca in cui le istituzioni tremano, reinseguendo un nuovo potere monarchico, para-assolutista, attraverso castelli di carta che cadono per le pulsioni costituzionalistiche che emergono in tutta Europa. Ecco, quindi, rivelando un ritratto di mondo in grande passaggio e crisi, la vicenda del Conte di Montecristo è una vicenda effettivamente classica, ovvero senza tempo. Quindi credo che a fare centro siano stati senz'altro il Conte di Montecristo in sé e per sé, la storia nel suo complesso, ma anche la grande capacità produttiva con l’inserimento di personalità come Sam Clafin e Jeremy Irons, e di tutti quegli attori e attrici  provenienti dall’Italia, dalla Francia, dall’Inghilterra che hanno accettato di partecipare a un progetto così ambizioso».

Infine Parma: tantissimi la ricordano qui, a Teatro Due, agli esordi. Lei come ripensa a quel periodo? Come si rivede?

«Il ricordo degli anni al Teatro Due è un ricordo tenero e bellissimo, anche se è un'ovvietà dirlo. Al Teatro Due ho sia recitato in palcoscenico che iniziato a fare quel lavoro in campo educativo, nelle scuole, che per me è parte integrante del mio percorso artistico. Quindi è un ricordo che non è neanche un ricordo vero e proprio, è una permanenza. Io cerco di restare ancora là, a vedere quelle cose in cui ho cominciato a credere e a fare proprio lì. Per me Parma è questo: una dimensione che tengo sempre presente di quello che secondo me è giusto fare, attraverso il teatro, per la città in cui si lavora e si vive».

Mara Pedrabissi

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