EDITORIALE
Veniamo da tre anni di fila terribili. Anni di guerre e di ferite spaventose: prima l’Ucraina (fra 10 giorni esatti ricorre il terzo anniversario dell’inizio della invasione russa), poi il Medio Oriente di nuovo in fiamme dopo il mostruoso attacco a Israele del 7 ottobre 2023 e l’apocalittica risposta dello Stato ebraico. Se ci aggiungiamo la pandemia, in pratica è da almeno un quinquennio che non tiriamo il fiato e che cerchiamo di immaginarci un domani migliore, per noi stessi e più ancora per i nostri figli. Un po’ come capitava di fare ai nostri padri e ai nostri nonni nelle trincee di un secolo, il Novecento, che pensavamo di esserci lasciati alle spalle con tutti suoi demoni e con tutto il suo carico di violenza e di odio.
Non è così. E a dircelo non sono solo le notizie che continuano a giungerci dall’Ucraina o da Gaza. A Bolzano, la Digos ha arrestato un 15enne sospettato di appartenere a un gruppo di matrice satanista, neonazista e suprematista. Un esaltato? Certamente sì, a giudicare dalle immagini allucinanti (aggressioni, sparatorie a scuola, materiali pedopornografici, scene di decapitazioni per mano dell’Isis) trovate dagli inquirenti nel suo cellulare. Ma un esaltato pronto anche ad ammazzare per dimostrare la propria “lealtà” a una setta fondata nel 2020 in Texas da un altro minorenne condannato a 80 anni di carcere per aver girato un video in cui dei bambini venivano torturati e abusati sessualmente.
Un secondo militante del gruppo era stato arrestato lo scorso anno in Gran Bretagna con l’accusa di avere tentato di uccidere un senzatetto. Lo stesso tipo di “target” (migranti, barboni, persone sole e vulnerabili) a cui stava puntando anche il ragazzo altoatesino. Il quale, a completamento e documentazione dell’orrido test, avrebbe poi pubblicato il video del delitto su un sito russo del dark web.
Commentando l’arresto, il questore di Bolzano ha lasciato intendere chiaramente che il giovane era ormai a un passo dall’entrare in azione e che le indagini sono da considerarsi tutt’altro che concluse.
Il caso ha voluto che proprio in questi giorni si sia aperto nello Stato di New York il processo all’attentatore del grande scrittore indo-britannico, naturalizzato statunitense, Salman Rushdie. Il giovane libanese-americano che nell’agosto 2022 pugnalò ripetutamente con una lama lunga 20 centimetri l’autore de I versi satanici è entrato nell’aula del tribunale cantando «Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera». Che è poi l’inno dei filo Hamas di ogni ordine e grado, dato che il titolo allude alla sparizione totale di Israele dalle carte geografiche. Cosa mai c’entrasse con la causa palestinese Rushdie, che a causa dell’attentato ha perso completamente l’uso dell’occhio destro e della mano sinistra, è presto detto: assolutamente nulla.
C’entrava e c’entra, invece, che il suo mancato assassino abbia agito in esecuzione della fatwa (condanna a morte) per blasfemia emanata nel 1989 contro lo scrittore dall’Ayatollah Khomeini in persona, all’epoca ancora in vita e guida suprema dell’Iran. Quello stesso Iran di cui Hamas è la diretta emanazione insieme alla maggior parte dei gruppi terroristici (Hezbollah, Houti, ecc.) sparsi per il Medio Oriente. Rushdie, che nella prima udienza del processo è stato chiamato a ricostruire le fasi dell’attentato («È accaduto tutto in fretta, sono stato colpito ovunque. Ho provato a proteggermi con la mano, ma lui non si è fermato e ha colpito anche quella. Poi mi sono ritrovato in un lago di sangue. Pensavo di essere morto»), ha anche tenuto a ribadire il diritto a un giusto processo e a esprimere liberamente le proprie idee dell’imputato. Questi, alla domanda del presidente della Corte se intendesse dichiararsi colpevole o innocente, ha risposto senza battere ciglio: «Non colpevole».
Ho voluto richiamare questi due episodi in quanto legati da un unico comune denominatore: l’odio. Un odio assoluto, totale, viscerale e che nel suo irrefrenabile desiderio di procurare del male a qualcuno o a qualcosa non conosce spazio alcuno non dico di pentimento, ma almeno di dubbio. Ed è proprio questa la cultura di gran lunga distintiva del nostro tempo: la cultura dell’odio, appunto. Che nessuna marcia della pace, nessun duetto sanremese, nessun appello al disarmo e al «cessate il fuoco» sembrano più in grado di tamponare e di fare regredire. Basta guardare a quanto avviene ogni giorno nelle nostre città, nei nostri quartieri, perfino nelle scuole in cui studiano i nostri ragazzi. La prima trincea dove l’odio andrebbe combattuto «senza se e senza ma».
A tale proposito, giunge però voce - verificata e purtroppo confermata - che in un liceo cittadino (che è anche il mio ex liceo), per «celebrare» il recente Giorno del Ricordo sia stato invitato a tenere una dotta conferenza un personaggio noto per i suoi sorridenti selfie accanto al busto di Tito e per una pubblicazione lesiva fin dal titolo - E allora le foibe? - della memoria delle migliaia di martiri italiani infoibati dai partigiani jugoslavi agli ordini dello stesso Tito. Fu quello, insieme all’internamento e alla morte nei lager comunisti di un numero ancora maggiore di nostri compatrioti, lo «strumento» adottato per provocare l’esodo forzato degli abitanti di nazionalità e di lingua italiana dall’Istria, dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia.
Nel suo discorso di lunedì scorso per il Giorno del Ricordo, il presidente Sergio Mattarella ha fra l’altro affermato che «la furia omicida dei comunisti jugoslavi si accanì su impiegati, intellettuali, famiglie, sacerdoti, anche su antifascisti, su compagni di ideologia, colpevoli soltanto di esigere rispetto nei confronti della identità delle proprie comunità». Per poi aggiungere che «Troppo a lungo “foiba” e “infoibare” sono stati sinonimi di occultamento della storia».
La domanda, quindi, è: come è possibile che in una scuola della Repubblica una delle pagine più dolorose e tragiche di tutta la nostra storia venga raccontata secondo una prospettiva diametralmente opposta a quella fatta propria, oltre che da fior di storici, anche dal Capo dello Stato? Va bene riconoscere a tutti (come fatto da Rushdie nei confronti del proprio attentatore) la libertà di espressione. Ma, senza neppure un contraddittorio, questa è, sì, libertà ma di indottrinamento!
La specialità dei tanti «cattivi maestri» ancora in circolazione. Ai quali sarebbe buona cosa rispondere facendo leggere in tutte le scuole il discorso per il Giorno del Ricordo del nostro Presidente. Un gesto concreto e semplice, ma è anche da qui che si può e si deve partire per liberarci dalla cultura dell’odio che ci assedia e ci minaccia da ogni parte.
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