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Intervista

Alessandro Bergonzoni a Teatro Due: «Serve la “congiungivite” per vedere gli altri»

Alessandro Bergonzoni a Teatro Due: «Serve la “congiungivite” per vedere gli altri»

di Mara Pedrabissi

22 Febbraio 2025, 10:21

Due avvertenze: «La gente esce da questo spettacolo anche provata dal punto di vista del riso», la prima. La seconda: «Non sono solo giochi di parole, ci terrei a dirlo. La parola è il mattone, però poi è la conformazione della casa quella che deve essere vista. Perché io non direi mai della tua casa: Che bei mattoni che ha! Invece spesso io vengo un po' travisato sull'uso di questa parola che amo indubbiamente, ma se non ha le fondamenta del pensiero, allora la parola non mi interessa, sennò avrei fatto un altro lavoro, il glottologo, l'enigmista»... Chi parla è Alessandro Bergonzoni, artista bolognese (lui rivendica anche ascendenze francesi) dalla cifra riconoscibilissima che sarà il mattatore in questo fine settimana a Teatro Due («Amo Teatro Due, trovo riduttivo Due, per me è almeno Teatro Milione. Ci vediamo a Teatro Milione!») con il suo ultimo spettacolo «Arrivano i Dunque», in tre recite stasera alle 20.30, domani alle 16 e, data aggiunta a fronte delle numerose richieste, domani alle 20.30.

Per l'occasione lo abbiamo intervistato. Restituiamo qui un compendio del fluviale Bergonzoni-pensiero (con l'uso del “tu” su precisa richiesta dell'interessato).

«Arrivano i Dunque»: ma cosa sono questi Dunque? E sono Dunque positivi o Dunque negativi?

«Ma io non divido mai in positivo e in negativo, divido in energia o non energia, nel senso di cosa arriva come potenza, come frequenza, come luce, come corrente, quindi qualcosa che stimoli. Arrivano i Dunque per me vuole dire: non possiamo più assolutamente dividere arte da sociale, sociale da istruzione, istruzione da difesa e così via. Uno di questi Dunque è quello che io chiamo “congiungivite”, che è diversa dalla “congiuntivite» che ti fa vedere sfocato, ti fa lacrimare l'occhio, la “congiungivite” invece ti fa vedere gli invisibili e hai la visione, cosa che in questo momento manca in qualsiasi settore, non parliamo poi nel campo politico. Visione significa non limitarsi al “divide et impera”, ma passare a ”unisci e impara”. Nello spettacolo infatti parlo di un'asta dei pensieri, perché voglio mettere all'incanto, cioè vendere al miglior offerente, vendere al miglior sofferente, che se lo aggiudichi, se lo pregiudichi o se lo giudichi, il pensiero».

Sei un po' ottimista perché intorno vediamo il «divide et impera».

«Difatti io sono stanco vivo, non stanco morto della condizione attuale. Stanco vivo nel senso che ho un'energia inversamente proporzionale a questo clima di sedazione, sono stanco vivo perché credo ancora che ci siano delle sollevazioni da fare. Non le chiamerò mai battaglie, non le chiamerò mai guerre. Le chiamo sollevazioni, non ultima quella che farò in maggio andando nelle carceri a Modena, a Imola, e credo anche a Reggio Emilia per un caso recente. So che Parma non è Reggio, ma voglio ricordare anche qui il detenuto incappucciato e picchiato in carcere a Reggio per cui dieci agenti della polizia penitenziaria sono stati condannati ma non per il reato di tortura. In questo momento, per esempio, penso che il tema carcerario abbia a che fare col tema della libertà, col tema della sicurezza, col tema della repressione e col tema del non sapere usare la delicatezza negli ambiti legali, negli ambiti della difesa. Nello spettacolo parlo di “altrista”, non di “artista”: il “te altro” è un qualche cosa oltre il “teatro”, oltre le assi del palcoscenico. Questo cambio di dimensione, di pensiero è uno dei Dunque che arrivano».

Chiaro. Però il sottotitolo si fa fatica a capirlo, sinceramente.

«Perfetto così! Dillo, dillo».

«Avannotti, Sole blu e la storia della Giovane saracinesca»...

«Quando ci sono i bis, e spesso ci sono, racconto, appunto, il Sole blu che è quello che dovremmo vedere come visione; la storia della Giovane saracinesca, io non la voglio spiegare ma mi costringi, rappresenta la prima volta cioè tutto quello che noi per la prima apriamo per vedere che cosa c'è dentro, in queste Avvanotti che sono giovani notti moltiplicate, migliaia e migliaia, in cui non c'è buio ma il sole è blu. È più un'immagine pittorica, un sottotitolo enigma: risolvetevelo da soli».

A proposito di giovanotti, i tuoi due figli, un maschio e una femmina, ora hanno più di trent'anni. È vero che, quando erano piccoli, gli raccontavi le favole non per farli addormentare ma per farli svegliare?

«Proprio così, alle 4 della mattina, passate le ore importanti del sonno - loro andavano a letto alle 9 - entravo nella stanza e dicevo, urlando: "C'era una volta...” e si partiva da lì. Ero molto esagerato nel favolismo. Però quando mi dicono “tu devi essere un padre impegnativo”, dico che padri impegnativi non sono solo quelli che hanno una vita pubblica e ti devi confrontare con loro ma sono anche quelli che per lavoro stanno fuori 12 ore».

Verissimo. Ma vogliamo sapere cosa oggi questi due ragazzi si tengono dentro delle favole con cui li hai svegliati la notte...

«Sicuramente una sollecitazione e una sensibilizzazione estrema, che non significa che li abbia educati a fare le cose che faccio io, tant'è che non ce n'è uno che fa l'attore, non ce n'è uno che scrive testi, non ce n'è uno che fa il comico. Mentre mio padre voleva che seguissi le sue orme, nella sua azienda metalmeccanica, che mi laureassi in Ingegneria. Gli ho concesso la laurea in Giurisprudenza perché sapevo che per lui, che avrebbe voluto studiare ma non aveva potuto, era importante. E questo è un dono che io fa-ti-co-sis-si-ma-mente (scandisce, ndr) gli ho concesso, perché ci ho messo 7 anni a laurearmi e in cambio mi hanno chiesto di non esercitare in nessun tribunale o foro del mondo, l'ho giurato in commissione di laurea. Ecco, invece, mio figlio quando aveva 9 anni, e poi l'ha ripetuto anche quando ha avuto la maggiore età, mi ha detto: “Due cose mi piacciono di te, l'attaccatura dei capelli e che non mi hai mai obbligato a fare niente».

Mara Pedrabissi

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