Intervista
«Racconto gli anni '60 con l'obiettivo rassicurante di dire che anche nei momenti più duri coltivare speranze e utopie non è un esercizio per anime belle. E' qualcosa che ha un vero fondamento. Gli anni '60 arrivano appena 15 anni dopo Hiroshima, dopo che le nostre città erano state rase al suolo. Eppure 15 anni più tardi l'utopia correva: questo significa che tutto è possibile, che bisogna avere fiducia».
Testimone (e protagonista) del suo tempo (che poi è anche il nostro), Walter Veltroni si mette in gioco portando in scena «Le emozioni che abbiamo vissuto», uno spettacolo - sabato prossimo all'Auditorium Paganini - nel segno della condivisione, di una comunità ritrovata: «Il pubblico partecipa, si commuove, ride, canta: è quello che volevamo, un trasferimento di emozioni».
Il sottotitolo dello spettacolo recita «Gli anni Sessanta. Quando tutto sembrava possibile». Mi ha fatto venire in mente il titolo di un libro di Mario Capanna, «Formidabili quegli anni». Sono stati davvero così formidabili?
«In un certo senso sì: sono anni che iniziano in un modo e finiscono in un altro. Anni di grandissima energia, anni nei quali cambia tutto: cambiano in modo irrevocabile i costumi, la considerazione della libertà, i diritti. C'è un'innovazione che attraversa ogni settore della vita civile, dalla musica, al cinema, alla cultura, al modo di vestirsi, alle relazioni tra le persone. Nulla è più come prima. E poi emerge l'esigenza dei giovani: prima si era o bambini o adulti, gli anni '60 certificano l'esistenza dei giovani. Un decennio di grande energia che però si conclude in Italia con le bombe di piazza Fontana e in America con l'assassinio di Martin Luther King e di Robert Kennedy. In qualche modo è come se il potere volesse rifiutare questo cambiamento, questa primavera».
So che questo è l'inizio di un grande progetto: parte dagli anni anni '60 per arrivare dove?
«Voglio arrivare fino alle Torri Gemelle, quello che considero l'atto conclusivo del '900. Il passaggio di millennio, di secolo. Quindi dovremmo fare gli anni '70, '80 e 'i 90».
Mi sembra ci sia molto in questi anni la voglia di guardare al passato con tenerezza, anche con nostalgia forse. Secondo te queste cose funzionano così bene anche perché il presente fa paura? È anche un modo di fuggire dalla nostra attualità?
«Ma guarda, sono tante cose insieme; prima di tutto c'è un bisogno di emozioni: viviamo in una società piena di micro informazioni e priva di emozioni. C'è bisogno di ritrovare quella componente essenziale della vita che sono le emozioni attraverso altre forme. La nostalgia non so...: nello spettacolo dico esplicitamente che non bisogna avere nostalgia per quel tempo storico: si può avere nostalgia per quella energia civile e culturale, per quell'atmosfera, ma non per come si viveva. Viviamo molto meglio oggi di allora. E poi c'è un altro elemento: il grande bisogno di racconto. Siamo bombardati di frammenti, di coriandoli... i social sono luoghi dove tutto è rapido e sintetizzato. Invece le persone hanno bisogno di trovare un filo che tenga tutto insieme. Io stesso sono stato sorpreso dal successo di questo spettacolo: credo che questo dimostri che c'è bisogno di ritrovare radici e futuro. Perché noi siamo costretti in un presentismo stupido, ci costringono dentro alle 24 ore e tutto quello che c'è prima e dopo sembra non interessare. E invece la ricostruzione della tridimensionalità della vita - passato, presente e futuro - per me è essenziale».
Dai anche speranze quindi, in qualche modo...
«Sì, assolutamente: è uno spettacolo che vuole trasferire non solo la speranza, ma anche la voglia di costruirla questa speranza. e non essere semplicemente followers, parola che a me spaventa. Followers in italiano significa essere seguaci: e io considero l'essere seguaci acritici una diminuzione della ricchezza umana».
Sei un grande fan di Bertolucci: negli anni '60 Bernardo gira a Parma «Prima della rivoluzione». E' un film che ha rappresentato qualcosa per te?
«Beh sì, certo: ne abbiamo parlato tante volte con Bernardo. Lui fa all'inizio e «lla fine degli anni '60 realizza due dei suoi film più belli: «Prima della rivoluzione» e «Strategia del ragno» che è del '70. In mezzo c'è «Partner» che, diciamo, non è tra i suoi film più riusciti. D'altra parte nel '68 hanno tutti fatto i loro film peggiori (ride, ndr). C'era una ventata ideologica e l'ideologia e il cinema non vanno tanto d'accordo. Parma ad ogni modo è una delle città in cui il fermento culturale e letterario in quegli anni era particoalrmente forte. Tutte le città in quel periodo costruivano dei sottili fili di relazione tra le persone che erano il contrario dell'individualismo e della solitudine della stagione precedente e ancora più di oggi.
Nello spettacolo ti accompagna Gabriele Rossi, un giovane pianista.
«Sì, è un ragazzo fantastico che ho scoperto su Instagram. Mi ha colpito per il modo in cui suonava, per la grazia e la fantasia. Ha una freschezza che assomiglia a quella degli anni '60».
dagli anni '60 ti riporto al presente: come giudichi questo nostro tempo che ci fa un po' paura?
«Come tutte le fasi di passaggio della storia umana - e questa la è - si presenta nella forma del caos. Il caos alla fine deve trovare una sua razionale sistemazione: e sono portato a pensare che siano le culture democratiche a potere ancora immaginare una razionale organizzazione del caos. Certo è che questo è il periodo più difficile che abbiamo vissuto dal dopoguerra: io non mi ricordo un momento di simile confusione, alterazione di principi, diritti, valori, sdoganamento di parole angoscianti tipo deportazione, parole che pensavamo di avere seppellito per sempre. E poi la violenza del linguaggio, la negazione dell'ascolto...: fa tutto parte di un armamentario tipico delle fasi che rischiano di precipitare in un buio autoritario. Però tanto più bisogna coltivare non tanto l'utopia, ma la coscienza della bellezza della democrazia. L'abbiamo vissuta la democrazia: e rinunciarci sarebbe mettersi sull'autostrada della guerra».
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