Intervista
Georgia Azzali
Dietro una cattedra universitaria. E chino su una scrivania a elaborare trattati scientifici. Era questo il destino di Matteo Donghi, Finché non fu folgorato sulla via del Ris. Laureato in fisica con un dottorato di ricerca, fa il servizio militare nell'Arma e poi decide di partecipare al concorso per ufficiali del ruolo tecnico vincendolo. E allora si impone una scelta complessa: l'Ateneo o i laboratori dei carabinieri? Ma in realtà era già stato conquistato dal mondo delle investigazioni scientifiche. E dopo tanta strada, molte soddisfazioni professionali, ora è lui - tenente colonnello, 51 anni, origini lecchesi - il nuovo comandante del Ris di Parma. «E' stata una scelta dovuta al caso e alla passione. Il servizio militare mi ha permesso fin da subito di lavorare. Inoltre, stiamo parlando dell'autunno del 1997, quando esplode il caso Donato Bilancia, il primo e forse unico serial killer italiano, condannato per 17 omicidi. Quell'indagine è stata la molla per scegliere questa strada».
Da allora ad oggi quali sono stati i passaggi?
«Dopo l'anno previsto alla scuola ufficiali a Roma, vengo assegnato al Ris di Messina, dove resto a lungo, fino al 2005. Torno a Roma per cinque anni e nel 2010 divento il comandante della sezione Balistica del Ris di Parma. Fino al 2023, quando poi decido di fare una nuova esperienza: per un anno all'Ufficio di procura della Corte penale internazionale».
E ora al comando del Ris: qual è la sfida?
«Sono onorato dell'incarico, nonostante il carico di lavoro sia notevole. Ma vorrei anche dire che se sono qui è anche per un buon consiglio di Giampietro Lago, il mio predecessore. Mi disse di essere chiaro con i vertici dell'amministrazione quando mi sarebbe stato domandato quali fossero i miei obiettivi. Così, quando mi fu chiesto, dissi che al mio rientro mi sarei aspettato di tornare a Parma, perché ormai da anni, insieme alla famiglia (la moglie è pubblico ministero alla procura di Modena, ndr), sono radicato in Emilia, ma aggiunsi anche di valutare il mio nome quando Lago fosse andato in congedo».
I numeri del Ris sono ormai esorbitanti: superate i 5.000 casi all'anno. Come si fa fronte a tutto ciò?
«Abbiamo la competenza su 8 regioni, quindi 30 milioni di abitanti. Io firmo centinaia di atti al giorno. Si pensa spesso agli omicidi, ma in linea generale, se si esclude la piaga dei codici rossi, si tratta di numeri piuttosto stabili. Mentre i reati contro il patrimonio sono un'emergenza, e noi vediamo solo la punta dell'iceberg».
E come si riesce a rispondere a questa miriade di richieste?
«Chiediamo agli investigatori sul territorio una selezione oculata di ciò che ci viene inviato. Ciò che va capito è che le tecniche di ultimissima generazione per estrarre il Dna non possono essere applicate sempre: per questioni di tempo, risorse e opportunità. La gestione è quindi sempre complessa, considerando che dobbiamo interfacciarci con una settantina di procure e centinaia di magistrati».
A proposito di numeri sempre più importanti e risorse che non sono illimitate, cosa ne pensa della riapertura di vecchi casi, come l'omicidio di Chiara Poggi, o del tentativo di rimettere in discussione sentenze passate in giudicato?
«Non conosco il caso di Chiara Poggi, non me ne sono mai occupato: ben vengano gli approfondimenti tecnici, ma ciò che mi lascia interdetto, da cittadino, è un fatto: i gradi di giudizio sono tre, poi la sentenza è definitiva. Ci sono procedure codificate, alla luce di elementi nuovi, per chiedere la riapertura di un caso. E se c'è un innocente condannato, ben vengano gli approfondimenti. Dimenticando i singoli casi e guardando al fenomeno, devo però dire che questo trend mi preoccupa. Ci sono vicende, che invece ho seguito e quindi conosco molto bene, in cui certi tentativi vengono fatti purché se ne parli, perché qualcuno possa farsi pubblicità, mi viene da dire».
Ma quali sono gli «ingredienti» di una buona indagine?
«Sono sempre stato convinto che le indagini scientifiche non possano prescindere da quelle tradizionali, portate avanti dai colleghi della territoriale. Le due componenti, da sole, valgono meno della metà, mentre insieme siamo più della somma. Per intenderci: se io riesco a dare un nome a un'impronta o a una traccia biologica, devo anche ricostruire la scena, collocare quella persona in quel luogo, ricostruirne la storia, un movente. Questa è una parte che non può venire dall'investigazione scientifica, ma poi un giudice ha bisogno del quadro complessivo per decidere. E tuttora io resto affascinato dagli elementi, talvolta straordinari, che arrivano dai colleghi sul territorio.
Indagine tradizionale e scientifica che viaggiano sulla stessa lunghezza d'onda con grandi risultati: ricorda un caso specifico?
«Penso all'omicidio di Teresa Costanza e Trifone Ragone, i due fidanzati uccisi nel marzo 2015, a Pordenone, davanti al palazzetto dello sport, poco dopo essere saliti in auto. Per mesi gli investigatori avevano guardato e riguardato le immagini di una telecamera che aveva ripreso le vetture che transitavano in una via accanto a luogo del delitto. Finché una collega del Ros nota che una delle macchine aveva impiegato 7-8 minuti per andare da un punto all'altro ripreso dalle telecamere, mentre il percorso era questione di istanti. Insomma, era ipotizzabile che l'automobilista si fosse fermato da qualche parte».
E cosa è emerso?
«Nelle vicinanze c'era un parco con un laghetto. Così, i colleghi hanno ipotizzato che l'assassino, Giosuè Ruotolo, un commilitone di Ragone, poi condannato in via definitiva all'ergastolo, avesse gettato lì l'arma del delitto. Ed effettivamente nel laghetto è stata ripescata la pistola, una vecchia Beretta degli anni '20. Ma si poneva il problema di farla arrivare a noi in condizioni idonee, perché il rischio era che, dopo mesi sott'acqua, al contatto con l'aria si ossidasse completamente».
Quindi cosa avete escogitato?
«Una volta che siamo stati avvertiti, abbiamo suggerito di prelevare l'arma con attorno la melma, la sabbia e un po' d'acqua per preservare al massimo le condizioni in cui si trovava. Poi è stata inserita in un contenitore, come quelli per gli alimenti, e così ci è arrivata. E, nonostante fosse rimasta sei mesi sott'acqua, siamo riusciti a stabilire che quella era l'arma del delitto, con ancora un colpo in canna. E' stato poi anche accertato che l'auto, un'Audi vista da un testimone sul luogo del delitto, era quella che compariva nelle telecamere. In realtà, il testimone, che era un meccanico, era sicuro si trattasse di un'Audi modello sportivo, ma quella ripresa pareva un'A3. Si è scoperto, però, che l'assassino aveva cambiato il gruppo frontale dell'auto montando quella del modello sportivo».
E del serial killer Donato Bilancia, il suo primo caso, ricorda qualche dettaglio particolare?
«Bilancia era stato identificato attraverso il Dna trovato su una tazzina di caffè e, grazie ai colleghi di Genova, sapevamo che si muoveva su una Mercedes 190. Quando avviene il duplice omicidio di Novi Ligure (vengono uccisi due metronotte, ndr), nel marzo 1998, uno degli ultimi delitti, vengono controllate tutte le auto partite da Genova, passate dal casello di Novi Ligure e poi tornate a Genova nel giro di cinque ore, e si riesce a individuano la targa. Come Ris, sulla scena dell'omicidio di Novi Ligure, avevamo trovato delle impronte di pneumatici ma di modelli diversi. Quando poi, però, i colleghi riescono a verificare le gomme dell'auto di Bilancia, scoprono che effettivamente montava quattro pneumatici di tre marche diverse».
I tasselli che cominciano a incastrarsi. E il risultato che dà un senso alla fatica. Ripaga delle disillusioni. Delle sconfitte che ti mettono alla prova.
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