Tutta Parma
Tra gli antichi ed ormai scomparsi mestieri non possiamo dimenticare i lustrascarpe ed i lucidatori di mobili in «pramzàn lustrón». I lustrascarpe che, provenivano quasi tutti dal sud Italia (anche quelli che lavoravano a Parma), emigrarono per la maggior parte negli Stati Uniti ed alcuni di loro fecero fortuna. Si posizionavano nei punti più strategici delle città (per quanto concerne la nostra: dinnanzi al Regio, in Stazione, in Ghiaia, nelle strade centrali, in Piazza Garibaldi all’ingresso del Diurno Cobianchi e di altri bagni pubblici.
Disponevano di una sedia, di uno sgabello e di una cassetta contenente vari tipi di spazzole, panni, lucido, lacci, stringhe ed un raschietto per togliere il fango quando il «nantén», ossia il nettascarpe che un tempo era murato a fianco dei portoni delle case, non era stato sufficiente a pulire tutta la suola. Alcuni lustrascarpe parmigiani che fecero fortuna ampliarono la loro attività lucidando anche i finimenti degli animali, valigie e borse.
Per le prestazioni del lustrascarpe non esisteva un tariffario, quindi, il lavoratore , doveva contare sul buon cuore e sulla generosità del cliente. In certi giorni il guadagno era prossimo allo zero come, ad esempio, nei giorni di pioggia, in cui sì, le scarpe dei passanti erano sporche, ma, pulirle per tornare a camminare su dei marciapiedi sporchi e bagnati, non aveva alcun senso. Nel momento in cui un passante accettava l’offerta del lustrascarpe, questi, invitava il cliente a posare il piede sull’apposito appoggio di legno e lì, armato di spazzole e di panni per lucidare, aveva inizio il suo lavoro. Per far splendere le scarpe come fossero nuove il lustrascarpe doveva utilizzare il lucido nero e marrone a seconda del colore delle calzature. E, a questo punto, proprio il lucido da scarpe, diede vita ad un antico e ancor oggi diffuso modo di dire in dialetto parmigiano: «bagolón dal lùsstor» per definire una persona poco affidabile. Nel lontano 1882 Arturo Frizzi, originario del mantovano e allievo ciarlatano del parmigiano Enrico Morini (a sua volta ciarlatano di lungo corso e venditore ambulante di prodotti scadenti), unitamente ad un altro parmigiano, Amadio Bulgarelli, ebreo claudicante, chiamato «sop magnacristiàn», inventarono una mistura per lucidare le scarpe: «al lùsstor p'r il scärpi» a base di segatura, nerofumo, acqua ed una minima parte di vero lucido. Il prodotto venne inscatolato e battezzato con il nome «Lucido Nubian dell’inventore americano Amadio Bulgarel». Ovviamente, il lucido, ebbe un impatto devastante nei mercati rivelandosi una sonora imbrogliata mentre gli imbroglioni, soprannominati «bagólon dal lùsstor», in tanti paesi furono inseguiti e malmenati da chi aveva acquistato il miracoloso «lùsstor».
Invece, parlando dei «lustrón», ossia dei lucidatori di mobili, a questo punto, non si possono non ricordare due mitici ed indimenticabili artigiani più volte evocati nei suoi amarcord da Claudio Mendogni, non solo apprezzato «maestro d’ascia», ma anche notissimo melomane. Pino Elbini (padre della popolarissima Rosetta che gestì per anni unitamente al marito, il cantante Marco Fedi, la più antica macelleria equina di Parma di Via Farnese), oltretorrentino verace di via Bixio, scomparso nel 2002 all’età di 77 anni, fu uno dei più stimati «lustrón» parmigiani collaboratore di importanti mobilifici come quelli di Tegoni, Spocci e Savani. Il portone del laboratorio del «lustrón» Giuseppe («Giuzép)» Levacher, al civico 31 di Borgo Guazzo, era tutto un programma: rugoso come il viso di un vecchio contadino, ma lucido e ben tenuto. Non c'era nessuna targa fuori ma era evidente che, lì dentro, in quel fazzolettino di bottega, ci lavorava uno che con il legno ci sapeva fare, infatti, fu il nido di uno degli ultimi «lustrón äd Pärma», Giuseppe Levacher, scomparso nel 2021, solitaria sentinella di questo antico mestiere unitamente ai colleghi Pino Elbini e Ovidio Bertolazzi con bottega in vicolo Santa Maria, «de dla da l'acua» (l'antico «Cul di sacco»).
Un personaggio vero, «Giuzép», nato e vissuto in quel dedalo di borghi che ruotano attorno a strada Garibaldi e a strada Saffi. Classe 1941, nato in borgo Gazzola, il padre Nino faceva il facchino dove capitava ma, soprattutto, in Ghiaia, la mamma Maria, era invece «rezdóra», la quale, per arrotondare le magre entrare familiari, faceva le campagne del pomodoro, delle cipolle e del riso indossando l'eroica uniforme di «mondina». Un cognome insolito, Levacher, infatti gli avi di Giuseppe, originari di Lione, giunsero a Parma alla corte di Maria Luigia. Giuseppe, a 12 anni, iniziò a fare il garzone dal mastro «lustrón» «Gaitàn» Ghiretti, in strada Saffi, proprio accanto alla bottega del mitico bottaio Mescoli. Lì, Levacher, insieme al collega Melezio (fedele compagno di nuotate nella Parma dove i due ragazzi andavano a «grottare»), imparò l'arte antica del lucidatore di mobili. A 29 anni decise di mettersi in proprio ed aprì una bottega in borgo Guazzo a un tiro di schioppo dalla chiesa della Trinità e dal «Piccolo Teatro».
A Parma, tempo addietro, di «lustrón» ce n' erano parecchi tra i quali: Sala in borgo della Posta, Evangelisti in borgo Bicchieraj e poi Olivieri in borgo Riccio, altri in Strada Nuova, Borgo Retto e bórgh Bartàn e la lista continuerebbe ancora per molto. Nella bottega «äd Giuzép» si respirava profumo del tempo andato. Tanti attrezzi, un bancone acquistato dal «maringón» Bonvini di borgo del Naviglio per ben 10mila lire, ammennicoli vari e poi i segreti del «lustrón» parmigiano: gommalacca, pomice, stracci avvolti nella lana («pumàs») ed un altro ingrediente che non si comperava da nessuna parte: «bzónt äd gòmmod». Giuseppe nel suo laboratorio aveva accanto la sua amica di sempre, la stufetta di ghisa «Armelinda». «Mi ha fatto compagnia in tanti inverni e in un inverno del dopoguerra - confidò alcuni anni fa al cronista - il casonér Tarabacli mi portò delle castagne secche d'al Stradón che gettai nella stufa per fare fuoco. Ad un certo punto a paräva fuss scopjé la guéra a forza del loro scoppiettare». Quando lavorava da «Gaitàn», Giuseppe, ricordava le gavette di pastasciutta e di trippa che gli portava il «Gòrilo» e che chissà dove andava a prenderle!! Come pure ricordava il suo amato «Stradón» dove, nelle afose serate estive, si trovava con il vecchio amico Adriano Catelli, un altro «pramzàn dal sas» e mitico custode della Cittadella. Il «lustrone» parmigiano amava ripetere: «j ò fat pu óri chi déntor -diceva riferendosi al suo laboratorio - che n'arlój». Già, borgo Guazzo, una volta ravvivato da tanti negozi: la latteria Rosati, Ivo «al bogdär», Baroni «al pcär äd cavàl», Centurio l'oste e un tappezziere. «A gh'era - ricordava Giuseppe- ànca la sesjón Cavestro dal Pci. Gh'è restè ätor che la tärga ànca parchè j communissta jen sparì cme j lustrón». Grande, immenso, indimenticabile «Giuzép».
Lorenzo Sartorio
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