L'intervista
Centrocampista talentuoso e, ieri come oggi, da bravo romagnolo verace, battutista insuperabile, Eraldo Pecci. È sempre stato il volto simpatico del calcio. «Il più simpatico in assoluto» garantiva Alberto Michelotti. Da calciatore ha vinto lo storico scudetto del Torino 1975-’76. È cresciuto nel Bologna di Bulgarelli e ha giocato nel Napoli di Maradona (“perdendosi” lo scudetto perché, dopo una stagione, ha chiesto di tornare a Bologna, per motivi famigliari, nonostante avesse altri due anni di contratto). Oggi vede il calcio, e lo racconta alla “Domenica Sportiva”, con grande competenza e con la dote (non comune) di saper sdrammatizzare, ma anche senza fare sconti alle brutture insopportabili (una su tutte: i cascatori professionisti). Di passaggio da Parma, lo abbiamo intervistato, parlando del calcio di ieri e di oggi.
Il Parma si salverà?
«Credo e spero di sì. Se lo merita. È una squadra in forma: io l’avevo detto, prima di Parma-Napoli quando i tifosi partenopei già pregustavano lo scudetto, che giocare al Tardini non sarebbe sta-
to affatto facile. E Conte se n’è accorto. Buon per lui che l’Inter ha pareggiato».
Che giudizio dà alla stagione del Parma?
«Molto positivo: all’inizio della stagione, quando stava bene Bernabè, secondo me era una delle squadre che giocavano meglio, con il Como. Non avrei detto che sarebbe rimasta invischiata nella lotta per salvarsi fino all’ultima giornata. Poi ha avuto un calo – secondo me una crisi di risultati, non di gioco – ed è stato fatto fuori Pecchia».
È stato giusto così?
«Io non l’avrei cambiato, proprio perché era solo una crisi di risultati. È un bravo allenatore, come il suo curriculum dimostra, una persona seria, uno che conosce l’ambiente e che ha già una bella esperienza alle spalle, prima grazie alla collaborazione con Benitez, poi per quello che ha fatto in serie B».
Forse per questo Parma aveva un atteggiamento tattico po’ troppo spregiudicato?
«Trovo che, in generale, si dia troppo peso agli allenatori. Uno può incidere nel momento in cui sceglie i giocatori, questo sì, ma non dopo: se hai in squadra Maradona, non sei tu a dovergli dire cosa deve fare, lo sa da solo. Quando un calciatore arriva in serie A, è già formato, non puoi plasmarlo come se fosse un bambino. Io sono sempre convinto di una regola aurea: prima c’è l’uomo, poi c’è il calciatore. E poi, solo dopo, c’è lo schema. Il calcio, secondo me, è questo».
Non sono in tanti gli allenatori d’accordo con questa graduatoria.
«Qualcuno c’è. In questo è molto bravo Conte. Lui dice alla società “Voglio Lukaku”. Magari gli propongono altri nomi: più giovani, più bravi, anche più costosi. Ma lui si impunta: vuole Lukaku perché conosce l’uomo e il calciatore, sa quello che potrà dare alla sua squadra. È giusto così».
Cosa pensa di Chivu? Appena è arrivato, il Parma si è rimesso in marcia.
«Bravo, si sta comportando molto bene: il Parma si è rimesso a giocare bene e a fare punti, adesso è in ottima forma. Il merito principale di Chivu è stato fare recuperare alla squadra la sua identità e ritrovare l’entusiasmo. E questo al di là dei risultati».
Vero. Però nel calcio conta vincere.
«Certo, giustissimo. Ma una stagione si analizza anche al di là del risultato. Spero proprio che l’Inter vinca la Champions, ma se anche non dovesse vincerla, dopo aver perso la Coppa Italia e, probabilmente, il campionato, non potremmo certo dire che è stata un’annata da buttare via, perché è stata protagonista in tutte le competizioni. Se il Bologna non avesse vinto la Coppa Italia, sarebbe stata comunque una stagione buona, perché ha saputo mantenere il livello dell’anno scorso. Al contrario, se avesse vinto il Milan, sarebbe rimasta un’annata disastrosa».
Il Napoli merita lo scudetto più dell’Inter?
«Le meriterebbero entrambe. Alla fine di un campionato così testa a testa, la cosa migliore sarebbe uno spareggio. Di sicuro il Napoli ha fatto una stagione meravigliosa, con una rosa inferiore a quella dell’Inter. Probabilmente perché ha persone quadrate. I successi sono anche una questione di chimica».
Di chimica? Non parlerà di doping.
«Ma no, non parlo di quella roba lì. Quella che io chiamo la chimica, in una squadra, è quell’insieme di legami, di intesa a occhi chiusi, di sintonia, di amicizia. Nel Toro, dopo aver giocato due mesi con Pulici e Graziani, mi bastava guardarli per capire come si sarebbero mossi. La chimica che intendo io è anche fare due chiacchiere sotto la doccia, uscire a cena insieme».
Che “peso” ha l’allenatore, in questo?
«È un collante prezioso. Ma non bisogna addossargli troppe responsabilità e neanche troppi meriti. Se Vlahovic un anno segna 26 gol e l’anno dopo 10, non colpa o merito dell’allenatore».
Qual è la squadra che l’ha divertita di più?
«Il Como, anche perché era una novità, il Bologna, la Fiorentina di inizio campionato. Poi bisogna intendersi: il divertimento è una bella cosa, ma lo sport è fatto per vincere. Vinci se giochi bene le tue carte, e magari può significare stare 90 minuti in difesa e vincere 1-0 con un gol in contropiede. Ogni tanto arriva qualche allenatore che si crede uno scienziato, che predica il calcio spettacolo, il ti-tic-ti-toc. Ma va là. Chi sono stati i migliori allenatori del campionato?».
Chi, secondo lei?
«Ranieri e Gasperini. E sa perché? Perché sono l’usato sicuro. Gente che sa cos’è il calcio e che quindi sa che nel calcio non s’inventa niente. In un secolo ci saranno, sì e no, quattro eventi che cambiano il calcio: che ne so, chi ha segnato il passaggio dal metodo al sistema, o gli olandesi. Stop. Per il resto, non s’inventa niente».
Sul calcio totale, Nereo Rocco aveva le idee chiare, come ci ricorda Gigi Garanzini, suo inarrivabile biografo: «Ciò, xe tutti olandesi dal lunedì al venerdì. Al sabato e alla domenica, tutti indrìo».
«Be’, perché il Paron conosceva anche gli italiani. Per inciso, grande Gigi: grande giornalista e grande amico. Anche il Petisso Pesaola era di quella filosofia. Indimenticabile un Bologna-Juventus, prima di campionato».
Cosa accadde?
«Vincevamo 1-0 a dieci minuti dalla fine, la Juve attaccava in forze per pareggiare. Pesaola faceva ampi gesti con le mani, come a dire “venite fuori, attacchiamo”, in modo che i tifosi lo vedessero. Contemporaneamente diceva, a noi che eravamo in campo: “Chi si muove da là dietro lo ammazzo”. Grande Petisso, quanti ricordi».
Ne racconta un altro?
«Era un periodo in cui perdevamo spesso, lui era infuriato. In una conferenza stampa, salta su Italo Cucci, che lui non amava, e gli dice “Caro Petisso, il fatto è che bisogna mettere bene in campo i giocatori”. Lo guarda, accigliato: “Eh, io li metto bene, ma poi loro si muovono”. Capito come sono cambiati i tempi? Un altro mondo, un altro calcio, un’altra umanità. Una volta, per scherzare, gli ho detto “Mister, io sono un estroso, dovrei andare al Real Madrid”. Mi ha fulminato con gli occhi. E poi, sempre dandomi del lei, come usava lui: “Estroso? No, lei è uno stronso, e dovrebbe andar aff…”. Capito?».
Radice, invece, non le dava del lei.
«No, mi chiamava ragazzo e, quando lo facevo arrabbiare, mi rifilava dei calci nel fondoschiena. Ma belli secchi, con il collo del piede. E guai se fiatavo. Però, anche Radice, era un grande allenatore – il primo a portare un po’ di Olanda in Italia – e un grande personaggio. Sa qual è la cosa che non sopporto del calcio di oggi?».
Quale?
«Quelli che si buttano per terra, che sembrano moribondi, che magari hanno preso una pinghella e si rotolano. Sa cosa diceva Radice a Pulici? “Paolino, ma quando sei caduto in area, ti sei buttato?”. “Ma no, mister, mi ha dato una spinta e sono caduto”. E lui: “Mi raccomando, uno come te non deve fare queste figure, non devi cadere in area”. Capito? Ah, che tempi. Adesso, tutti cascatori: e gli allenatori insegnano a cadere, a simulare. Tutta colpa del Var».
Davvero?
«Certo. Io sono sempre stato contrario al Var. Ok, può aiutare a correggere uno sbaglio, e ci sta. Ma il problema è che il Var ha sdoganato tutta quella gente che, se l’avversario la sfiora, si getta a terra e finge di aver preso un pugno. Se vai a vedere il Var, il tocco c’è. Si gioca sempre meno e si studia come fare ammonire l’avversario. Ho letto l’articolo di un giornalista che commentava, con toni entusiastici, la stagione di un attaccante: “ha fatto ammonire 42 avversari”. Ma come?, mi chiedo io: è una nota di merito? Ricordiamoci sempre che si chiama “giuoco del calcio”. Solo sulla carta, ormai. Ho anche proposto di abolire il calcio di rigore».
Addirittura? Non è un po’ esagerato?
«Era una provocazione. Ma se decidesse di fischiare rigore solo per un fallo “vero”, roba che devi portare l’attaccante in ospedale, scommettiamo che starebbero tutti in piedi e non si butterebbe più nessuno?».
A proposito di arbitri, sa chi aveva una venerazione per lei? Alberto Michelotti. Parlava di lei come del calciatore più simpatico tra tutti quelli che ha arbitrato.
«Ah, Alberto. Quanti ricordi. Era il più bravo di tutti. Lui e Agnolin, due fuoriclasse. Una volta mi ha beccato mentre davo un manrovescio a Bagni. Gli ho detto “Alberto, vado. Vado fuori”, prima ancora che estraesse il cartellino rosso. Passandogli vicino, gli ho fatto un sorriso: “Però, Alberto, una, mi raccomando”. Volevo dire: una giornata di squalifica, non calcare la mano più di tanto, nel referto. E così è stato. Mi diceva sempre “dammi una mano, dammi una mano”. “Ok, Alberto, ti do una mano: ma tu ci fischi sempre contro, cavolo…”. Gli ho voluto un gran bene. Era il più bravo perché non si è mai fatto intimidire da nessuno: se c’era un rigore al 90’, lui lo fischiava, ovunque fosse. A costo di rimanere assediato per ore».
Nella sua carriera ha giocato con tanti fuoriclasse. Maradona il più grande di tutti?
«Diego era unico, in campo e fuori. Un fenomeno con il pallone, ma anche un cuore grande così, sempre pronto a aiutare chi aveva bisogno. Lui è là in cima. Io mi immagino che in paradiso ci siano un attico con i grandissimi che hanno fatto la storia del calcio. Solo i grandissimi. Pelè, Di Stefano, Maradona, Pedernera. Vedremo più avanti se ci sarà posto per Messi, non è detto».
Pedernera è un suo idolo?
«Come potrebbe non esserlo? Un fenomeno, lui e il River Plate degli anni Quaranta, la leggendaria “Máquina”. Quando chiedevano a Carlos Peucelle, che ha allenato quella squadra, quale fosse il segreto, rispondeva secco: “Il merito è di Doña Rosa, che ha messo al mondo Adolfo Pedernera”. E Di Stefano, a chi lo definiva il migliore calciatore di tutti i tempi, rispondeva “si vede che non avete mai visto giocare Pedernera”. Di fenomeni del genere ne nascono pochi, dia retta a me».
Di campioni, oltre a Maradona, lei ne ha avuto tanti come compagni di squadra.
«Altroché, come compagni e come avversari. Quando ho cominciato c’erano i Bulgarelli, i Rivera, i Mazzola; e poi Ferrini, Iuliano, De Sisti, Antognoni. Nel Torino, con Pulici e Graziani che facevano venti gol a testa, era come partire sempre da 1-0. Mica male. Non ci sono più giocatori così. Non è un caso che abbiamo “saltato” due Mondiali e adesso rischiamo di non qualificarci per i prossimi. Idem per gli stranieri: il livello si è molto abbassato».
Qualcuno buono c’è.
«Sì, ma vuole mettere rispetto a qualche anno fa? In Italia veniva Maradona, veniva Zico a Udine, abbiamo avuto gente come Passarella, Bertoni, Dirceu, Platini, Krol, Van Basten. E quanti altri ne dimentico? Adesso i più bravi vanno più volentieri in Spagna o in Inghilterra, perché da noi il livello si è troppo abbassato».
Si diverte sempre a fare il commentatore alla “Domenica Sportiva”?
«Sì, ma mi sono un po’ stancato. In generale, si parla sempre meno di calcio, si parla di soldi. Delle tv che dettano legge e hanno imposto il calcio spezzatino: io dico che un giorno ci pentiremo. È vero, gli stadi sono sempre pieni, ma ho la netta sensazione che il calcio interessi sempre meno. Me ne accorgo al bar, quando vado a fare uno scopone con i miei vecchietti».
Cioè?
«Alle tre del sabato c’è la partita, io lascio il tavolo e mi piazzo davanti alla tv: perché poi ne devo parlare in tivù e io sono all’antica, se devo parlare delle partite le voglio vedere tutte. Una volta, se eravamo in dieci, ci alzavamo tutti. Adesso solo io, gli altri continuano con lo scopone. Qualcosa vorrà dire, o no?».
Claudio Rinaldi
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