Intervista
Il 2 luglio alle 21, Villa Malenchini ospiterà lo spettacolo «I miei primi Verdi anni» di e con Katia Ricciarelli che coinvolgerà anche alcuni giovani artisti della sua accademia. L’evento che vede protagonista il celebre soprano è organizzato da Parma Lirica: alla sede del circolo, in viale Gorizia, è già partita la prevendita.
Signora Ricciarelli, com’è il suo legame con Parma, dal punto di vista professionale e affettivo?
«È stato molto importante per me perché ho fatto quella “Bohème” insieme a Carreras e oltre ad avere avuto un grande successo ci siamo anche conosciuti. Abbiamo avuto una “love story” grazie a quest’opera e a Parma. Ho tanti altri ricordi anche artistici: ho fatto diverse cose, tutte documentate bene negli annali di Parma Lirica».
Il suo rapporto con il pubblico del Regio?
«Onestamente non ho mai avuto sorprese. Sono sempre stata amata e non mi hanno mai messa in discussione. Questo, comunque, fa anche parte del mestiere: se uno viene contestato non è che si giochi la carriera. Conosciamo l’entusiasmo del pubblico di Parma: per una nota non troppo bella è capace di di fare un “oh” che, moltiplicato per un grande numero di spettatori, diventa molto potente. I suoi spettatori sono famosi anche per le battute e ne ho sentite diverse, anche se, per fortuna, non nei miei confronti».
Come si è formato il progetto che presenterà a Villa Malenchini?
«È nato dal successo di uno spettacolo pucciniano, visto che l’anno scorso c’è stato il centenario della morte di Puccini: il risultato, con il cantato e il parlato, è stato molto carino. Questo, invece, l’ho dedicato al Verdi giovane che ho affrontato spesso: volevo raccontarlo anche attraverso delle arie come quelle da “Il corsaro” o “Giovanna d’Arco”. Parlerò come se fossi la moglie di Verdi, Giuseppina Strepponi, visto che il pubblico oggi vuole che gli si racconti anche un po’ il contesto».
In quali aspetti si sente vicina alla Strepponi?
«Interpreterò questo ruolo, ma non devo farlo completamente: è più che altro un pretesto per far capire Verdi, che è, invece, il vero protagonista. Lei è stata la sua compagna, ma a noi interessa lui. Credo che il risultato sarà piacevolissimo così come è stato molto apprezzato anche il lavoro su Puccini. È la conoscenza che oggi manca al pubblico ed è importante raccontargli anche cose che magari non tiene in considerazione. Sarà una chiacchierata con dei brani del giovane Verdi».
Quanti sui allievi saranno coinvolti?
«Ce ne saranno almeno quattro o cinque per avere tutte le voci. Io sono “patita” dei giovani e adesso mi sto dedicando completamente a loro. È giusto che sia così perché abbiamo bisogno di giovani. Ora c’è un po’ un buco generazionale. Sia tra gli interpreti che tra il pubblico... Il pubblico che vediamo ormai ha l’età che ha ed è un peccato. Quelli che conoscono bene l’opera e vanno sempre a teatro dovrebbero portare i giovani. Se fossi una nonna e avessi dei nipoti li porterei a teatro già a partire dai dodici – tredici anni perché devono conoscere questo patrimonio che è stato riconosciuto anche all’Unesco. Abbiamo inventato noi il melodramma nel ‘600 e da allora non c’è un teatro al mondo che non abbia in cartellone almeno uno dei nostri compositori».
Il suo rapporto con l’insegnamento?
«È una cosa molto bella e mi piace molto perché l’insegnamento del canto è astratto: il nostro strumento non è come il violino o il pianoforte, ma lo abbiamo dentro di noi. Se non studiamo la tecnica, anche a livello muscolare come degli atleti, e se non curiamo il fiato e non respiriamo bene, la voce non esce: escono dei suoni un po’ discutibili. Una volta messo a posto questo aspetto, però, bisogna dare cuore a quello che si fa. Ci sono cantanti che usano soltanto il proprio mezzo vocale, ma in questo caso non arriva nulla al pubblico: se a questo non viene la pelle d’oca, si può soltanto accontentare di qualche bel suono».
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