UXORICIDIO DI VIA MARX
Silvana, nulla più che un nome. Nulla più che un'ombra dietro le tende di quell'appartamento di via Marx. E l'unico suo collegamento con il mondo era Giorgio Miodini. Il marito. Il compagno della vita che l'ha uccisa sparandole un colpo di fucile in pancia mentre dormiva. «Silvana Bagatti era una depressa cronica: mi risulta che stesse sempre in casa ed era Giorgio che mi faceva fare le ricette di cui aveva bisogno», spiega Marco Vescovi, il medico di base che assisteva la coppia da una trentina d'anni, davanti alla Corte d'assise, presieduta da Maurizio Boselli.
Sempre lui. Miodini si occupava di tutto: della moglie, 76 anni quando è stata uccisa, e della casa. Aveva sempre retto, ma nell'ultimo periodo sembrava molto più affaticato, secondo quanto hanno raccontato ieri al processo due vicini di casa. «Era distrutto, molto stanco fisicamente e mi diceva anche “se non ci sarò più io, chi si occuperà di lei?”», spiega Isabella Bertani.
Ma in quella casa non erano «ammessi» aiuti: non una badante, un'assistente domiciliare o sociale, «perché lei non vuole», diceva Miodini, accusato di omicidio premeditato e difeso dagli avvocati Filippo e Mario L'Insalata. Sei giorni prima del delitto aveva incontrato Fulvio Arnone, neurologo e psicoterapeuta, seguendo l'indicazione del medico di famiglia che gli aveva consigliato una visita specialistica. Un lungo colloquio, durato quasi un'ora e mezza. «Mi ha fatto capire che era in una condizione di burn out, di sofferenza psicofisica, benché non fosse né confuso né disorientato - spiega Arnone davanti ai giudici -. “Mi aiuti perché devo assistere mia moglie”, mi ha detto. Gli ho proposto l'assistenza domiciliare, di andare io dalla moglie, ma lui continuava a ribadire che lei non voleva vedere nessuno. Allora gli ho detto: “Vi ricovero tutti e due”, così potevano anche stare vicini. C'era la necessità di curare tutti e due. E alla fine gli avevo detto: “Ci pensi qualche giorno e mi faccia sapere”».
Non arriverà mai quella telefonata. E l'unica cosa che può fare lo specialista in quel momento è scrivere una lettera al medico curante, in cui consiglia una visita psichiatrica per la moglie, mentre a lui prescrive due farmaci, tra cui delle iniezioni di un antidepressivo. Solo un inizio, una prescrizione che avrebbe dovuto essere in itinere. «Voleva qualcosa per lui, non un progetto terapeutico», sottolinea Arnone. E rispondendo al pm Ignazio Vallario, aggiunge: «Non ho mai detto di sospendere la terapia alla moglie, che assumeva da molto tempo un antidepressivo ormai non più efficace, per indurre un peggioramento: sarebbe stato un atteggiamento un po' barbaro».
Ma fino all'ultimo periodo, nemmeno il medico curante aveva colto segnali di depressione in Miodini, ma d'altra parte anche Silvana pareva stabile. «Ero andato a casa loro il lunedì mattina (due giorni prima dell'omicidio, ndr) e lei era ben compensata. Erano una coppia molto affiatata, e lui era indispensabile per lei», spiega Vescovi.
Una «condizione di simbiosi», secondo Arnone, in cui entrambi hanno bisogno di stare insieme, «ma si crea un'assistenza all'eccesso, amorevole si intende, non per una colpa».
Quella simbiosi che Miodini spezza poco dopo le 8 del 15 maggio 2024. E' lui che subito dopo dà l'allarme e quando arriva la prima volante è alla finestra della sala da pranzo. «Era tranquillo, ha detto subito di aver sparato alla moglie ed è uscito di casa da solo», spiega l'ispettore Osvaldo Benedetto.
Dall'inizio dell'anno Miodini è ai domiciliari in una casa di cura. Un anziano mite, così sembra sul banco degli imputati. Eppure, secondo l'accusa, avrebbe progettato di uccidere Silvana. La sua metà. Che tutti credevano inseparabile.
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