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Domani a Colorno

La figlia Elisabetta: «Mio padre Paolo Villaggio? Faticoso ma stimolante»

La figlia Elisabett: «Mio padre Paolo Villaggio? Faticoso ma stimolante»

di Filiberto Molossi

12 Giugno 2025, 10:30

È il genio comico dei «92 minuti di applausi» e dell'autobus preso al volo (cosa che provò a fare per davvero - con risultati tragicomici e qualche escoriazione - suo padre...), l'attore fenomenale che vollero tra gli altri Fellini, Wertmüller e Monicelli, il buffo e imprevedibile personaggio che rivoluzionò per sempre anche la televisione. Ma, tra le mille davvero mille cose, il vulcanico, indimenticabile, Paolo Villaggio è stato anche un padre: «Un padre faticoso», come testimonia la figlia Elisabetta, scrittrice, regista e autrice tv, che domani sera, alle 21,30, nel Parco della Reggia di Colorno, presenterà - in un incontro moderato da Enrico Volpi - «Fantozzi dietro le quinte», un volume pieno di ricordi e testimonianze, e «Madeira», il suo libro di racconti appena uscito.

«Io e mio padre - racconta - ci siamo molto scontrati nel corso della vita, anche perché avevamo un carattere simile, forte. Non era uno di quei padri che ti leggeva le favole: ma è stato un padre molto stimolante, oltre che molto colto: e di questo lo ringrazio. Ci ha fatto scoprire Woody Allen quando nessuno lo conosceva, ha messo in mano a me e a mio fratello e poi a mio figlio Dostoevskij e Kafka quando eravamo ancora ragazzini... e poi ci interrogava. Non la scappavi. E poi mi ha sicuramente trasmesso il piacere di viaggiare, la voglia della scoperta, la curiosità...: una persona straordinariamente stimolante, come ti dicevo, ma faticosa perché alzava sempre l'asticella: bisognava sempre andare oltre, non bastava mai. D'altra parte pretendeva molto anche da se stesso, usava lo stesso metro».

Ma era un padre simpatico, che vi faceva ridere anche a casa?
«No, quello no: a casa era diverso. Come credo quasi tutti i comici: che hanno i loro turbamenti, le loro malinconie».

Ricordo bene quando gli consegnarono il Leone d'oro a Venezia, episodio su cui ti soffermi anche tu nel libro: tra alcuni addetti ai lavori ci fu un po' di, ingiustificata, sorpresa. E forse anche per questo tuo padre sottolineò a più riprese in quei giorni che aveva lavorato con Fellini, con Monicelli...Si sentiva un po' imprigionato nel ruolo di Fantozzi?
«Non tanto in Fantozzi, in realtà, anche se all'inizio lo amò più la gente normale che i critici: chi andava al cinema, chi lo guardava in tv, ma anche chi comprava i libri, perché non dimentichiamoci che in Italia non si legge ma «Fantozzi» ha venduto oltre un milione di copie... Il fatto è che il comico non solo in Italia è sempre stato considerato di serie B. Ricordo che mio padre da piccola diceva: “Guarda Jerry Lewis: è un grandissimo attore ma tutti pensano che sia uno scemone perché fa le mossette, le faccette...” quando invece era un interprete di uno spessore straordinario. E poi se ci pensi di Fantozzi, a 50 anni di distanza, se ne parla ancora: anche i bambini sanno chi è. Il che vuol dire che non era di serie B, ma che ha lasciato qualcosa, al di là della comicità o del fare ridere. Perché fare ridere è facile, ma far pensare è molto più difficile».

Ho rivisto di recente un'intervista che aveva rilasciato alla tv svizzera in cui tuo padre diceva che in «Fantozzi» aveva dovuto usare l'iperbole, l'esagerazione, perché gli italiani non sono autoironici...
«È vero, ma oltre all'iperbole per me nei «Fantozzi» è fondamentale anche il linguaggio. Prima di scrivere “Fantozzi dietro le quinte” mi sono riletta tutti i libri e rivisto tutti i film: e se da una parte mi sono piaciuti molto più adesso di quando ero ragazzina, dall'altra mi sono accorta che avevano un linguaggio molto moderno, molto sintetico, come quello che usiamo adesso. Mio padre non scriveva, ad esempio, “mi sono alzato dalla scrivania e ho sbattuto la testa”, ma “craniata pazzesca!”...

Di sè diceva, «sono Fantozzi al 90%»: lo riconosci in questa definizione?
«Siamo un po' tutti Fantozzi...anche io. Che faccio bancomat e non ritiro i soldi...: ormai in banca lo sanno e non ci fanno più caso...».

Scrivere «Fantozzi dietro le quinte» è stato un modo per rendere omaggio a tuo padre? O per farci i conti magari?
«Guarda, ho deciso di scriverlo mentre ero in autobus, perché sono una che prende gli autobus, anche al volo...: e sentivo sempre da sconosciuti battute e riferimenti che venivano da quei film, dalla nuvoletta di Fantozzi ai congiuntivi sbagliati... Ho pensato che solo io potevo lasciare una memoria storica, una traccia: volevo scrivere un tutto quello che non si trova nei libri, nei film, nelle interviste. Raccontare cose che nessuno sapeva, nemmeno io: ad esempio ho scoperto che la prima scena in assoluto girata nel primo “Fantozzi” è la famosa partita a tennis del “batti lei” di Filini».

E invece «Madeira»? Perché un libro di racconti proprio su questa isola?
«Perché io sono nata al mare, a Genova, così come mio padre, mentre nonne e nonni sono nati a Venezia, Trieste, Palermo...: insomma, il mare è molto presente nella mia famiglia e nella mia vita. Per me rappresenta i sogni, il distacco dalla realtà, uno spazio senza tempo. E le isole ancora di più, magari battute da un vento che ti porta via cattivi pensieri. Io sono andata a Madeira due anni fa, in estate e invece di studiarmi le guide ho cercato letteratura che avesse a che fare con questa isola, trovando molto poco. Sono partita da lì e ho pensato a questi 15 racconti che vanno dal 1419, da quando l'isola è stata scoperta casualmente dai portoghesi, fino ad oggi: alcune storie sono completamente inventate, altre sono riferite a personaggi realmente esistiti che hanno avuto a che fare con Madeira, da Winston Churcill che andava lì a dipingere, alla principessa Sissi, depressa, anoressica, chiusa in questo impero asburgico che odiava, e che a Madeira, per un breve periodo, era rinata, fino a Cristoforo Colombo che proprio laggiù ha scoperto quei venti che l'avrebbero condotto alle Indie. E che poi sappiamo dove l'avrebbero portato».

Filiberto Molossi

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