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Processo

Uxoricidio di via Marx. «Ho sparato, e solo dopo mi sono reso conto»

Uxoricidio di via Marx. «Ho sparato, e solo dopo mi sono reso conto»

di Roberto Longoni

24 Giugno 2025, 08:44

«Fu il colpo del fucile a svegliarmi, dopo che ero stato io a premere il grilletto». È Giorgio Miodini a raccontarlo, in corte d'assise davanti alla giuria presieduta da Maurizio Boselli (giudice a latere Francesco Magnelli). Il vecchio calibro 12 tra le braccia, ancora puntato verso la sagoma immobile della moglie stesa a letto, Miodini spalancò gli occhi nel fumo dello sparo e li mise a fuoco sul peggiore degli incubi: passata dal sonno alla morte, la sua Silvana non li avrebbe mai più riaperti. Lui, che aveva vissuto per lei fino a rinunciare alla vita, si era spinto troppo oltre. «Lo feci senza pensarci - prosegue il 77enne uxoricida -. Se ci avessi riflettuto su, ora non sarei qui». Perché? gli domanda Boselli. La risposta è una conferma: «Avrei ucciso anche me stesso».

Erano le 8 del 15 maggio del 2024. L'imputato - oggi ai domiciliari a Monticelli - non sa dire se avesse fatto o meno colazione, per l'ennesima volta da solo. Ricorda dallo sparo in poi, con tutto l'orrore. La telefonata al 113, l'attesa delle pattuglie alla finestra dell'appartamento al 21 di via Marx, il cellulare sul comodino, con il pin in evidenza. «Sapevo che mi avrebbero portato via e che avrebbero avuto bisogno di guardarci dentro. Quando li vidi arrivare, andai loro incontro». Quell'attesa, solo, senza il coraggio di avvicinarsi al cadavere della moglie, doveva essere più pesante di tutto il resto.

Si fatica a immaginare con un fucile in braccio questo anziano magro e dal passo incerto, con l'espressione scolpita da un tarlo nell'anima. Stando a lui, la pena la sta già scontando. «È più di un anno che ci penso, prima di dormire - prosegue -. E più lo faccio e più mi viene una grande sofferenza qui nello stomaco. Non riesco a capire: sono ancora qua e soffro tutti i giorni e tutte le notti». Non che prima di quel mattino maledetto la sua vita fosse un idillio. Silvana Bagatti da anni non usciva di casa, se non un paio di volte all'anno: per andare dall'oculista e per gli esami del sangue. Depressa, non voleva vedere nessuno: né fuori né in casa. E i vicini ricordano solo fugaci e silenziose apparizioni.

Come scorrevano le vostre giornate? chiede Filippo L'Insalata, difensore di Miodini con il fratello Mario. «Mi svegliavo alle 8 e facevo colazione. Alle 9 uscivo per comprare il giornale e fare la spesa: si cenava con piatti comprati in rosticceria. Alle 11, rientravo, per preparare la frugale colazione di Silvana, che poi tornava a letto. Si alzava alle 14 senza appetito. Guardava gli stessi programmi e fumava qualche sigaretta fino alle 17, quando cenavamo insieme». Solo il telecomando poteva cambiare la sfumatura del giorno in un grigio perenne, nonostante Giorgio facesse brillare mobili e pavimenti. Alla fine, lui aveva preso ad addormentarsi a sua volta tardi, per paura che lei cadesse, si ferisse o che solo lasciasse aperto il rubinetto dell'acqua calda, come era avvenuto una notte.

Fidanzati nel 1970, i due si erano sposati dal 1973. Lei aveva cominciato a lavorare a 15 anni, per smettere a 35. Lui era diventato tassista, dopo un lavoro in fabbrica. «Smisi nel 2010: perché ne avevo il diritto e perché c'era bisogno». Una costante. Il padre di lei curato in casa dal 1979 al 1992, la mamma di lui dal 2010 al 2015, i nipoti orfani da seguire. E intanto, nel 2003, il male oscuro che aggredisce Silvana, paziente poco collaborativa. Quando la situazione è peggiorata? domanda Mario L'Insalata. «Nel 2012 smise di vedere da un occhio. Fui io ad accorgermene: lei non mi aveva detto nulla». Da lì in poi, sarebbe stato Giorgio a fare tutto.

Alla fine, si negò anche la bicicletta. «Smise di venire con il gruppo - racconta Carla Ravasini, chiamata a testimoniare -. Temeva che, se gli fosse capitato qualcosa, non avrebbe più potuto accudire la sua Silvana». Sia lei che Paola Tarasconi, descrivono l'imputato come un vicino perfetto. «C'era per tutto e per tutti, per tre scale: mai infastidito né nervoso, ma premuroso». Negli ultimi mesi, era dimagrito molto. «Gli consigliai di farsi vedere da uno psichiatra» ricorda Carla Ravasini. Perché non un nutrizionista? le domanda il pm Ignazio Vallario. «Perché so riconoscere il dolore» risponde lei, che chiederà il permesso di abbracciare Miodini, prima di uscire. Al senso di ineluttabile solitudine che accompagna da sempre questa tragedia se ne sovrappone uno di condivisione, di vecchia Parma solidale anche nei palazzi all'apparenza glaciali. «Giorgio per me era ed è una grande persona - sottolinea Roberto Ruggerini, vicino di un paio di piani sopra -. Mi aveva chiesto di fargli dieci iniezioni ricostituenti. Arrivai alla quarta...». La quinta sarebbe stata il 15 maggio: non la fece mai. Partiva da sottozero, Miodini, le batterie scariche da chissà quanto, incapace di rendersene conto.

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