OMICIDIO AL CAS DI VIA FAELLI
Non ha mai voluto incrociare lo sguardo dei giudici che decideranno della sua vita. E loro non hanno potuto nemmeno scorgere i tratti del suo volto. Sempre lontano dall'aula di Tribunale, Rabbi Hosen. Ma chi è questo ragazzo di 25 anni arrivato dal Bangladesh che la sera del 30 ottobre 2023 ha massacrato Rabby Ahmed, il suo compagno di stanza al Cas, il Centro d'accoglienza di via Faelli? E perché lo ha colpito almeno quattro volte alla testa con un mattarello e poi ha spinto con un coltello e delle forchette sul collo fin quasi a decapitarlo? Sono le domande che rilancia anche il pm Domenico Galli durante la sua requisitoria davanti alla Corte d'assise, presieduta da Maurizio Boselli (giudice a latere Francesca Merli): quasi due ore di prove incasellate una dopo l'altra e un epilogo, forse spiazzante per chi non ha seguito il processo, ma assolutamente coerente con ciò che il magistrato ha sostenuto fin dall'udienza preliminare. «Vi è un fondato dubbio sulle sue capacità», dice in uno dei passaggi cruciali della discussione. E poi conclude: «C'è almeno un vizio parziale di mente che deve essere riconosciuto». Una seminfermità che, Codice penale alla mano, abbatte di un terzo la pena, e alla quale il pm chiede di aggiungere anche le attenuanti generiche, considerando la confessione di Hosen subito dopo essere stato fermato e il fatto che la difesa abbia dato l'assenso all'acquisizione di tutti gli atti processuali. Risultato: 14 anni e 2 mesi, questa la richiesta di condanna per Hosen, accusato di omicidio volontario e porto abusivo di un coltello, la lama (non quella dell'omicidio) che aveva quando era stato bloccato qualche ora dopo vicino al Pronto soccorso.
Hosen e lo spettro della follia. Una prima perizia, a cui aveva dato il via libera il gip, non è arrivata a stabilire eventuali vizi di mente perché Hosen, dopo un primo colloquio, si è sempre rifiutato di incontrare lo specialista, che tuttavia aveva stabilito la sua capacità di stare a processo. Eppure c'è una perizia agli atti, disposta dal giudice dell'udienza preliminare e firmata dalla psichiatra Giuseppina Paulillo. Ma è proprio su questa relazione che si concentrano i passaggi decisivi della requisitoria. «Si tratta di una ventina di pagine, di cui 18 di copia-incolla di atti di indagine e una di conclusioni, eppure sbagliate - sottolinea il pm -. La dottoressa Paulillo è una grandissima professionista, ma forse ha avuto poco tempo, solo 45 giorni. Non ha individuato il movente, perché non vorremo dire che si tratta di un delitto politico, visto che Hosen, una persona così semplice, parla della sua appartenenza al partito opposto a quello della vittima».
Nessun movente, secondo il pubblico ministero, che ha anche insistito a lungo sul fatto che tutti gli altri ospiti del Cas e il responsabile abbiano escluso dissidi e conflitti tra Hosen e Ahmed. Tuttavia, nei dieci giorni precedenti l'omicidio, qualcosa si spezza. O forse emergono - eclatanti - i segnali di un disagio che era maturato nel tempo: Hosen teme di essere avvelenato, ha paura che Ahmed lo uccida, gira nell'appartamento con dei coltelli e dorme in bagno o in cucina. «Ma il perito non spiega le idee persecutorie e di veneficio - aggiunge Galli -. Mai una volta ha preso posizione sulle paranoie e su ciò che Hosen scrive davanti alla polizia giudiziaria per confessare l'omicidio. Un biglietto delirante, ma non c'è una riga su questo. Però la dottoressa ha anche ammesso di non aver effettuato test psicodiagnostici».
E' l'accusa che gioca in difesa, se dovessimo trovare il titolo ad effetto. Ma questa, va ribadito, è sempre stata la convinzione del pm. E sull'altro versante, si è ritrovata insolitamente l'avvocata Serena Dimichele, parte civile. Che, dopo aver tratteggiato la figura di Ahmed («un ragazzo di 23 anni che con il suo lavoro sosteneva la famiglia in Bangladesh e il padre che vive a Roma»), mette in evidenza la «particolare violenza» dell'omicidio. Ma soprattutto valorizza la perizia firmata da Paulillo: «Non abbiamo solo la sua relazione, perché la dottoressa è stata sentita in due udienze. Ha diagnosticato un disturbo non classificato, non una sindrome che dunque può incidere sulla capacità di intendere e volere». E sull'ipotesi di assenza di movente contrattacca: «Non uno, ma tre moventi ci sono: Ahmed avrebbe voluto aiutare Hosen e aveva contattato la sua famiglia, ma lui non voleva. C'è anche il motivo politico. Inoltre, Hosen, omosessuale, era interessato ad Ahmed, ma non era ricambiato. Il manoscritto dopo il delitto? Si è preconfezionato una giustificazione».
Ed è così che, per la parte civile, la richiesta di 14 anni e 2 mesi del pm è «una pena inaccettabile». Di più. Per l'avvocata Dimichele l'omicidio è aggravato dalla premeditazione, dalla crudeltà, dai futili motivi, dalla minorata difesa e dall'abuso di relazioni domestiche.
Basterebbe solo la prima aggravante per spedire Hosen all'ergastolo, se fosse riconosciuta, ma non è stata contestata, così come le altre. Ed è così che, su questi rilievi, la difesa nemmeno replica. «Il manoscritto per crearsi una giustificazione? Hosen avrebbe una carriera alla Stephen King», esordisce l'avvocato Matteo Bolsi. Ma subito dopo riparte riconoscendo l'«onestà intellettuale» del pm e affronta le questioni cruciali. «Al di là delle capacità, il costrutto ideativo di Hosen, che si sentiva in pericolo, ha inciso su ciò che ha fatto - sottolinea il difensore -. E nell'esame e nel controesame della Paulillo ci sono varie cose che non mi sono chiare: la dottoressa non si ricordava in quale lingua Hosen avesse redatto il manoscritto e poi non si capisce se la sua assenza di rimorso sia indice di psicopatia o normalità». Infine, le richieste, in linea con quelle del pm: riconoscimento del vizio parziale di mente, ma anche attenuanti generiche.
E nelle prossime settimane spetterà alla Corte decidere. Capire chi è Hosen.
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