Tutta Parma
Da una sorgente di acqua purissima che sgorga tra l’ Alpe di Succiso ed il Monte Giogo, in Lunigiana, dalla quale nasce, il torrente Enza forma il magnifico Lago Paduli prima di iniziare la sua tortuosa discesa verso il cuore della nostra bassa e terminare a Coenzo, dove si butta nel Po. In questo modo, il torrente apuano-parmense-reggiano, nei secoli, ha insegnato ai pastori lunigianesi il modo di portare i loro greggi nella bassa quando, in inverno, le loro valli sono avare di erba. «Cuènsi», dunque, è calato del cuore della Bassa, di quella sterminata fetta di Padania che ispirò scrittori come Giovannino Guareschi a narrare i giorni, le ore e le emozioni di quel «mondo piccolo» che fece il giro del pianeta con Peppone e Don Camillo. Coniugando quel saggio adagio secondo il quale «il progresso è nel passato che abbiamo dimenticato» (ossia nelle nostre antiche tradizioni) a Coenzo, il 30 settembre 2012, nacque la Casa delle Contadinerie, frutto di un' antica idea di don Learco Paini, indimenticato parroco del paese, coadiuvato dai solerti volontari del locale e attivissimo circolo Anspi, guidato da Giovanni Calegari e che per ebbe, per tanti anni, anima organizzativa Flavio Rizzi.
La Casa delle Contadinerie coenzese ospita un interessante museo etnografico dove sono custoditi, catalogati e sapientemente esposti oggetti e manufatti frutto di quella civiltà contadina foriera di saggezza che si richiama ai sacri valori della famiglia, del lavoro e della propria terra. Appena entrati nel museo, appeso ad un attaccapanni, dà il benvenuto al visitatore un vecchio tabarro. Uno di quei tabarri che indossavano i «rezdór» quando, in sella alle loro biciclettone, fendevano freddo, «fumära e galabrùzza» per spostarsi da un casolare all'altro o anche in città con la sporta «äd pavera» dentro la quale trasportavano quelle «munizioni da bocca» (salami, galline, capponi e uova) che vendevano al mercato. Entrando in cucina si ha l'impressione di essere entrati nella macchina del tempo. Vegliato dal suo «altare domestico» : un grosso camino con i suoi attrezzi tra i quali l'immancabile «gaväl» (palettina per togliere la cenere) e la panca scaldapiedi il tavolo, permanentemente apparecchiato come se da un momento all'altro si dovesse sedere la famiglia contadina per il pranzo o la cena, è arricchito da tanti oggetti che ora sono spariti dalle nostre case. Infatti fanno bella mostra: grattuge lignee («razóri»), i cestini di ferro per scolare i «grùggn», quelli di vimini utilizzati per la raccolta di amarene e susine, le macchine per fare la sfoglia o tritare la carne complete con le loro manovelle.
La vita contadina di ieri prosegue in altre stanze dove sono esposti gli attrezzi che utilizzavano gli «scranär» per impagliare «'l scràni (seggiole) 'd pavera». Un lavoro, questo, che veniva svolto dagli anziani nelle stalle durante le veglie serali invernali. Non poteva mancare la sezione dedicata alla maialatura con gli attrezzi del mestiere del «masèn» tra i quali l'immancabile «coradór» e l'immagine di «Sant'Antónni dal gozén» che campeggiava in tutte le stalle ed in tutti i pollai. La bottega del calzolaio è stata fedelmente riprodotta con alcuni deschi sui quali poggiano gli attrezzi dei «cibàch» ambulanti che arrivavano nelle corti padane, una o due volte all'anno per riparare le scarpe di tutta la famiglia contadina. In mancanza del calzolaio, i contadini, si arrangiavano come potevano risuolando le scarpe, specie dei ragazzi, con copertoni di bici oppure con coriacee cotiche di maiale. Ed, a questo proposito, ad un giovane, furono suolate, dal padre, le scarpe con una cotica di maiale in mancanza del cuoio. Il ragazzo, alla sera, si recò in veglia dalla fidanzata ma, durante il corteggiamento, il cagnetto di lei non smise di leccare le suole dello spasimante che, visibilmente imbarazzato, fece ritorno a casa. In una vetrina sono raccolti i reperti relativi all'elettricità d' un tempo: vecchi interruttori in porcellana e «perette» sia in porcellana che in legno che penzolavano dalle testiere dei lettoni matrimoniali. Il fiore all'occhiello del museo etnografico di Coenzo è comunque rappresentato dall'abbigliamento maschile e femminile: abito della festa per lui e per lei rigorosamente neri, poichè si sporcavano meno e poi potevano essere indossati sia per i matrimoni che per i funerali. Ed ancora: abiti per cresime e comunioni , mantelline di lana («spärabren'na») per anziane e giovani, massicci attaccapanni di legno e ferro, ferri da stiro a carbonella, macchine da cucire antidiluviane che si azionavano a pedale. Non poteva mancare la camera da letto dai cui i travi ballonzolavano i salami ad asciugare. Adagiati sul letto la camiciona da notte bianca dello sposo e della sposa. Quando lui, la prima notte di matrimonio, indossando quella bianca palandrana, rivolto alla sposa pronunciava le fatidiche parole: «rezdóra, stasira,possia mancärov äd rispèt?». E poi le valigie di cartone, le scarpe dei bambini tagliate in punta in modo che al bambino, crescendo, non gli facessero male le dita dei piedi. Molto dolce la riproduzione dell'angolo della puerpera con l'occorrente per la levatrice. Una particolare cura nella catalogazione dell'abbigliamento è stata riservata agli abiti femminili ed a quei vestiti a manica corta ai quali veniva cucita un' aggiunta nelle maniche per evitare che il sole abbronzasse più di tanto le braccia. Se ciò fosse accaduto, era da ritenersi sconveniente in quanto, le braccia abbronzate, le avevano solo le contadine.
Davvero interessante la sezione che riproduce l'epopea della canapa impreziosita da un libro di Giovanni Pasquinelli, apprezzato storico bercetese che ha raccontato anche le eroiche epopee dei segantini della nostra montagna. Non potevano ovviamente mancare i vasi da notte in quanto, le toilettes, non erano certo comode come ora ma ubicate in cortile. Ed allora, i «pitali» («bocäl da nóta») assolvevano ai bisogni dei nostri nonni. Nella vasca da bagno di zinco, che veniva collocata nella stalla in quanto, in inverno, era il locale più caldo, si lavava nella stessa acqua tutta la famiglia contadina . Ricostruita fedelmente anche un 'aula scolastica con tanto di banchi lignei con incavo che doveva ospitare il boccetto dell'inchiostro. Non poteva certo mancare, in una zona di antichi pescatori come Coenzo, una sezione dedicata alla pesca di pesci e rane con l'esposizione di nasse, reti, zucche svuotate nelle quali si conservavano i pesci appena pescati. Sembrano ancora un funzione, tanto sono ben tenute, alcune radio fra le quali una del 1928 che avrà trasmesso gli enigmatici appelli di «Radio Londra» e gli annunci dell'entrata in guerra e poi della Liberazione oltre che le spensierate canzonette del Trio Lescano.
Uno spazio interessante è stato riservato alle lanterne a petrolio, le luci dei nostri nonni, come pure le lanterne ad acetilene che servivano, nei mesi estivi, a catturare nei canali e nei fossi le rane innamorate. Parcheggiati nella «porta morta», un rosso «guzzino», un «paperino», un «mosquito» ed alcune bici da guerra con fanali predisposti per l'oscuramento. Mentre un 'autarchica doccia, costituita da un secchio tirato con una corda, accanto al «sambòt», era circondata da alcune «corghe» ( gabbie) per pulcini e «galén'ni scapadori» realizzate con cerchioni di vecchie bici. Anche i lavori di falegnameria sono stati presi in considerazione con antichi attrezzi «d'al maringòn» fra i quali le seghe a mano regolabili dall' intreccio di corda. Gli utensili dei contadini si sprecano nel museo coenzese: ferri per tagliare il fieno, mazzette, la «bòtta per strajär 'l siss», il buratto per selezionare le sementi, bilance ( «staderi»), setacci ( «zdass») di fogge e dimensioni diverse E poi la «bugadära», regno delle «rezdóre» quando facevano il bucato con la cenere ed il sapone fatto in casa con la soda e il grasso di maiale. Per finire, la «préda» per affilare la «frén'na» ( falce) e le museruole per i vitelli affinchè non mangiassero troppo . La cantina prevede un vero proprio tesoro della vinificazione di ieri con attrezzature per imbottigliare il vino (in giornate primaverili e senza vento altrimenti «'l ciapäva 'l fiss») e tapparlo con tappi di sughero unti d'olio, botti tini e damigiane.
Nell' hangar attiguo al museo una trebbiatrice «Orsi» sembra ancora ringhiare sotto il sole come ai bei tempi. E’ pure stato esposto «al banc dal lundì» dove alcuni ambulanti vedevano i vestiti femminili donati dagli americani dopo la guerra. Per difendersi dai ratti tante trappole esposte di fogge diverse, come pure alcune tagliole per catturare le donnole, killer dei pollai. Alcune «moscaróli», delle quali una con tanto di lucchetto per difendersi dai topi a «due zampe», sembrano ancora diffondere il profumo dei formaggi e dei salami che custodivano.
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